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Italo Calvino: Marcovaldo ovvero Le stagioni in città

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Italo Calvino Marcovaldo ovvero Le stagioni in città

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E Marcovaldo, tal quale come loro, correva da un indirizzo all'altro segnato sull'elenco, scendeva di sella, smistava i pacchi del furgoncino, ne prendeva uno, lo presentava a chi apriva la porta scandendo la frase: — La Sbav augura Buon Natale e felice anno nuovo, — e prendeva la mancia.

Questa mancia poteva essere anche ragguardevole e Marcovaldo avrebbe potuto dirsi soddisfatto, ma qualcosa gli mancava. Ogni volta, prima di suonare a una porta, seguito da Michelino, pregustava la meraviglia di chi aprendo si sarebbe visto davanti Babbo Natale in persona; si aspettava feste, curiosità, gratitudine. E ogni volta era accolto come il postino che porta il giornale tutti i giorni.

Suonò alla porta di una casa lussuosa. Aperse una governante. — Uh, ancora un altro pacco, da chi viene?

— La Sbav augura…

— Be', portate qua, — e precedette il Babbo Natale per un corridoio tutto arazzi, tappeti e vasi di maiolica. Michelino, con tanto d'occhi, andava dietro al padre.

La governante aperse una porta a vetri. Entrarono in una sala dal soffitto alto alto, tanto che ci stava dentro un grande abete. Era un albero di Natale illuminato da bolle di vetro di tutti i colori, e ai suoi rami erano appesi regali e dolci di tutte le fogge. Al soffitto erano pesanti lampadari di cristallo, e i rami più alti dell'abete s'impigliavano nei pendagli scintillanti. Sopra un gran tavolo erano disposte cristallerie, argenterie, scatole di canditi e cassette di bottiglie. I giocattoli, sparsi su di un grande tappeto, erano tanti come in un negozio di giocattoli, soprattutto complicati congegni elettronici e modelli di astronavi. Su quel tappeto, in un angolo sgombro, c'era un bambino, sdraiato bocconi, di circa nove anni, con un'aria imbronciata e annoiata. Sfogliava un libro illustrato, come se tutto quel che era lì intorno non lo riguardasse.

— Gianfranco, su, Gianfranco, — disse la governante, — hai visto che è tornato Babbo Natale con un altro regalo?

— Trecentododici, — sospirò il bambino, senz'alzare gli occhi dal libro. — Metta lì.

– È il trecentododicesimo regalo che arriva, — disse la governante. — Gianfranco è così bravo, tiene il conto, non ne perde uno, la sua gran passione è contare.

In punta di piedi Marcovaldo e Michelino lasciarono la casa.

— Papa, quel bambino è un bambino povero? — chiese Michelino.

Marcovaldo era intento a riordinare il carico del furgoncino e non rispose subito. Ma dopo un momento, s'affrettò a protestare: — Povero? Che dici? Sai chi è suo padre? È il presidente dell'Unione Incremento Vendite Natalizie! Il commendator…

S'interruppe, perché non vedeva Michelino. — Michelino, Michelino! Dove sei? — Era sparito.

«Sta' a vedere che ha visto passare un altro Babbo Natale, l'ha scambiato per me e gli è andato dietro…»

Marcovaldo continuò il suo giro, ma era un po' in pensiero e non vedeva l'ora di tornare a casa.

A casa, ritrovò Michelino insieme ai suoi fratelli, buono buono.

— Di' un po', tu: dove t'eri cacciato?

— A casa, a prendere i regali… Sì, i regali per quel bambino povero…

— Eh! Chi?

— Quello che se ne stava così triste… quello della villa con l'albero di Natale…

— A lui? Ma che regali potevi fargli, tu a lui?

— Oh, li avevamo preparati bene… tre regali, involti in carta argentata.

Intervennero i fratellini. — Siamo andati tutti insieme a portarglieli! Avessi visto come era contento!

— Figuriamoci! — disse Marcovaldo. — Aveva proprio bisogno dei vostri regali, per essere contento!

— Sì, sì, dei nostri… È corso subito a strappare la carta per vedere cos'erano…

— E cos'erano?

— Il primo era un martello: quel martello grosso, tondo, di legno…

— E lui?

— Saltava dalla gioia! L'ha afferrato e ha cominciato a usarlo!

— Come?

— Ha spaccato tutti i giocattoli! E tutta la cristalleria! Poi ha preso il secondo regalo…

— Cos'era?

— Un tirasassi. Dovevi vederlo, che contentezza… Ha fracassato tutte le bolle di vetro dell'albero di Natale. Poi è passato ai lampadari…

— Basta, basta, non voglio più sentire! E… il terzo regalo?

— Non avevamo più niente da regalare, così abbiamo involto nella carta argentata un pacchetto di fiammiferi da cucina. È stato il regalo che l'ha fatto più felice. Diceva: «I fiammiferi non me li lasciano mai toccare!» Ha cominciato ad accenderli, e…

— E…?

— … ha dato fuoco a tutto!

Marcovaldo aveva le mani nei capelli. — Sono rovinato!

L'indomani, presentandosi in ditta, sentiva addensarsi la tempesta. Si rivestì da Babbo Natale, in fretta in fretta, caricò sul furgoncino i pacchi da consegnare, già meravigliato che nessuno gli avesse ancora detto niente, quando vide venire verso di lui tre capiufficio, quello delle Relazioni Pubbliche, quello della Pubblicità e quello dell'Ufficio Commerciale.

— Alt! — gli dissero, — scaricare tutto, subito!

«Ci siamo!» si disse Marcovaldo e già si vedeva licenziato.

— Presto! Bisogna sostituire i pacchi! — dissero i capiufficio. — L'Unione Incremento Vendite Natalizie ha aperto una campagna per il lancio del Regalo Distruttivo!

— Così tutt'a un tratto… — commentò uno di loro.

— Avrebbero potuto pensarci prima…

— È stata una scoperta improvvisa del presidente,

— spiegò un altro. — Pare che il suo bambino abbia ricevuto degli articoli-regalo modernissimi, credo giapponesi, e per la prima volta lo si è visto divertirsi…

— Quel che più conta, — aggiunse il terzo, — è che il Regalo Distruttivo serve a distruggere articoli d'ogni genere: quel che ci vuole per accelerare il ritmo dei consumi e ridare vivacità al mercato… Tutto in un tempo brevissimo e alla portata d'un bambino… Il presidente dell'Unione ha visto aprirsi un nuovo orizzonte, è ai sette cieli dell'entusiasmo…

— Ma questo bambino, — chiese Marcovaldo con un filo di voce, — ha distrutto veramente molta roba?

— Fare un calcolo, sia pur approssimativo, è difficile, dato che la casa è incendiata…

Marcovaldo tornò nella via illuminata come fosse notte, affollata di mamme e bambini e zii e nonni e pacchi e palloni e cavalli a dondolo e alberi di Natale e Babbi Natale e polli e tacchini e panettoni e bottiglie e zampognari e spazzacamini e venditrici di caldarroste che facevano saltare padellate di castagne sul tondo fornello nero ardente.

E la città sembrava più piccola, raccolta in un'ampolla luminosa, sepolta nel cuore buio d'un bosco, tra i tronchi centenari dei castagni e un infinito manto di neve. Da qualche parte del buio s'udiva l'ululo del lupo; i leprotti avevano una tana sepolta nella neve, nella calda terra rossa sotto uno strato di ricci di castagna.

Uscì un leprotto, bianco, sulla neve, mosse le orecchie, corse sotto la luna, ma era bianco e non lo si vedeva, come se non ci fosse. Solo le zampette lasciavano un'impronta leggera sulla neve, come foglioline di trifoglio. Neanche il lupo si vedeva, perché era nero e stava nel buio nero del bosco. Solo se apriva la bocca, si vedevano i denti bianchi e aguzzi.

C'era una linea in cui finiva il bosco tutto nero e cominciava la neve tutta bianca. Il leprotto correva di qua ed il lupo di là.

Il lupo vedeva sulla neve le impronte del leprotto e le inseguiva, ma tenendosi sempre sul nero, per non essere visto.

Nel punto in cui le impronte si fermavano doveva esserci il leprotto, e il lupo uscì dal nero, spalancò la gola rossa e i denti aguzzi, e morse il vento.

Il leprotto era poco più in là, invisibile; si strofinò un orecchio con una zampa, e scappò saltando.

È qua? è là? no, è un po' più in là?

Si vedeva solo la distesa di neve bianca come questa pagina.

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