Per prima cosa, solo nella metà dei casi era stato trovato un messaggio d’addio, che diceva esplicitamente che il suicida aveva deciso di porre fine alla propria vita. Una foto dei messaggi era allegata in ogni documento: tutti esprimevano rimpianto, in un modo o nell’altro, dicendo ai propri cari che li amavano ma che non riuscivano a superare il dolore.
Gli altri sette si potevano quasi considerare tipici casi di sospetto omicidio: corpi spuntati dal nulla, ritrovati in posizioni sgraziate. Sul corpo di uno dei suicidi, una ragazza di diciassette anni, erano stati trovati segni di attività sessuale recente. Quando il DNA del suo compagno era stato trovato su di lei, questi aveva mostrato alla polizia dei messaggi sul cellulare che dimostravano che la ragazza era stata a casa sua, avevano fatto sesso e poi se n'era andata. Da quel che sembrava, si era lanciata dal Miller Moon Bridge circa tre ore dopo.
L'unico caso dei quattordici che secondo Mackenzie avrebbe richiesto un’indagine più approfondita era il triste e sfortunato suicidio di un ragazzo di sedici anni. Quando il suo corpo era stato trovato su quelle rocce insanguinate sotto il ponte, presentava lividi sul petto e sulle braccia molto diversi dalle altre ferite causate dalla caduta. Nel giro di pochi giorni, la polizia aveva scoperto che il ragazzo veniva picchiato regolarmente dal padre alcolizzato, che tentò poi egli stesso il suicidio tre giorni dopo la scoperta del corpo del figlio.
Mackenzie finì la sessione di ricerca con il rapporto appena compilato su Malory Thomas. Il suo caso si distingueva un po’ dagli altri perché era nuda. Il rapporto mostrava che i suoi vestiti erano stati trovati in una pila ordinata sul ponte. Non c’erano segni di violenza o attività sessuale recente. Per una ragione o per l'altra, sembrava semplicemente che Malory Thomas avesse deciso di fare quel salto in costume adamitico.
Però è strano, rifletté Mackenzie. Addirittura fuori luogo. Se hai intenzione di ucciderti, perché mai vorresti far ritrovare il tuo corpo così esposto?
Ci rimuginò su per un momento, poi ricordò la psichiatra che lo sceriffo Tate aveva menzionato. Certo, ora che era quasi mezzanotte, era troppo tardi per chiamare.
Mezzanotte, pensò. Guardò il suo telefono, sorpresa che Ellington non avesse provato a contattarla. Immaginò che non volesse infastidirla finché non le fosse passata l’arrabbiatura. Anche se, onestamente, non sapeva quanto ci sarebbe voluto. D’accordo, aveva commesso un errore molto prima di conoscerla... perché diavolo doveva sentirsi così arrabbiata?
Non era sicura. Sapeva solo di esserlo... e in quel momento, quella era l'unica cosa importante.
Prima di andare a letto, guardò il biglietto da visita che la donna alla centrale aveva inserito nel fascicolo. C’erano il nome, il numero e l'indirizzo e-mail della psichiatra locale, la dottoressa Jan Haggerty. Giocando d’anticipo, Mackenzie le scrisse un’e-mail, per informarla che era in città e perché, oltre a richiedere un incontro il prima possibile. Decise che se non avesse avuto risposta da Haggerty entro le nove dell’indomani, l’avrebbe direttamente contattata telefonicamente.
Prima di spegnere le luci, pensò di chiamare Ellington, giusto per sentirlo. Lo conosceva abbastanza bene; probabilmente era in piena fase di autocommiserazione, magari mezzo svenuto sul divano dopo essersi scolato un’intera confezione di birra.
Pensare a lui in quello stato le rese la decisione molto più facile. Spense le luci e, nell'oscurità, cominciò ad avere l’impressione di trovarsi in una città molto più buia di altre. Il tipo di città che celava alcune brutte cicatrici, che restavano nascoste non a causa dell'ambiente di provincia, ma a causa di quella presenza sulla strada sterrata a circa dieci chilometri da dove in quel momento Mackenzie riposava. E sebbene fece del suo meglio per liberare la mente, si addormentò tormentata dalle immagini di adolescenti che cadevano dal Miller Moon Bridge trovando la morte.
Mackenzie fu svegliata dalla suoneria del cellulare. L'orologio sul comodino segnava le 6:40. Recuperato il telefono, vide il nome di McGrath lampeggiare sul display, e dopo un istante in cui desiderò che invece fosse Ellington, rispose.
"Qui agente White."
"White, a che punto siamo con il caso del nipote del vicedirettore Wilmoth?"
"Beh, fino a questo momento sembra un chiaro suicidio. Se le cose procedono come credo, dovrei tornare a Washington oggi pomeriggio.”
"Nessun segno di aggressione?"
"Non che io abbia riscontrato. Se posso chiederlo... il vice Wilmoth sta per caso sperando che si tratti di un omicidio?”
"No. Ma siamo realisti... un suicidio in famiglia per un uomo nella sua posizione non darà una buona impressione. Vuole semplicemente sapere i dettagli prima che vengano resi pubblici.”
"Ricevuto."
"White, l’ho svegliata?" fece in tono burbero.
"Certo che no, signore."
"Tienimi aggiornato costantemente”, disse prima di terminare la chiamata.
Modo fantastico per svegliarsi, pensò Mackenzie mentre scendeva dal letto. Andò a farsi una doccia e quando ebbe finito si avvolse in un asciugamano pulito. Mentre usciva dal bagno il suo telefono si rimise a suonare.
Non riconoscendo il numero, rispose subito, con i capelli ancora bagnati: “Pronto, sono l'agente White".
"Agente White, sono Jan Haggerty”, disse una voce dall'aria cupa. “Ho appena finito di leggere la sua email."
"Grazie per avermi contattata così presto", disse Mackenzie. “So che è chiedere molto per qualcuno che svolge la sua professione, ma sarebbe possibile incontrarci per scambiare due parole oggi?"
"Non sarebbe affatto un problema", disse Haggerty. “Il mio ufficio è fuori casa e il primo appuntamento è solo alle nove e mezza questa mattina. Se mi dà mezz'ora per prepararmi, possiamo vederci direttamente tra poco. Le preparo un caffè.”
"Sarebbe perfetto", disse Mackenzie.
Haggerty diede a Mackenzie il suo indirizzo e finirono la chiamata. Con mezz'ora di tempo a disposizione, Mackenzie decise che avrebbe dovuto comportarsi da adulta e fare una telefonata a Ellington. Non avrebbe giovato a nessuno dei due nascondere il problema in questione e sperare semplicemente che l'altro se ne dimenticasse o ci passasse sopra.
Quando rispose sembrava stanco. Mackenzie pensò di averlo svegliato, il che non era poi così improbabile, dato che tendeva a dormire di più quando non doveva lavorare. Ma era anche abbastanza sicura di aver colto una nota di speranza nella sua voce.
"Ehi”, fece lui.
"Buongiorno. Come stai?"
"Non lo so”, disse quasi subito. “Giù di corda sarebbe il modo migliore per descriverlo. Ma sopravvivrò. Più ci penso, più sono sicuro che tutto questo si risolverà. Avrò una piccola imperfezione nel mio curriculum professionale, ma finché potrò tornare al lavoro, penso che ce la farò. E tu? Come è il tuo caso super-top-secret?”
"Quasi finito, credo”, disse. Quando l'aveva chiamato la scorsa notte mentre si recava a Kingsville, non aveva condiviso troppe informazioni con lui, ma gli aveva fatto capire che non era un caso che l'avrebbe messa in pericolo. Adesso continuò a fare attenzione a non rivelargli troppe informazioni. A volte accadeva tra colleghi, quando un caso era chiuso o prossimo alla risoluzione.
"Bene”, disse. “Perché non mi piace come abbiamo lasciato le cose quando te ne sei andata. Io non... beh, non so ben per cosa dovrei scusarmi, ma sento di averti fatto un torto.”
"È andata come è andata" tagliò corto Mackenzie, detestando quella frase fatta appena le uscì di bocca. “Dovrei tornare entro stasera. Ne possiamo parlare allora.”
"Va bene. Fa’ attenzione."
"Anche tu”, disse lei con una risatina forzata.
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