Meredith disse: “Agenti Paige e Jeffreys, voglio che vi occupiate di questo caso immediatamente.” Spinse un fascicolo contenente foto e rapporti, dall’altra parte del tavolo, verso Riley. “Agente Paige, queste sono tutte le informazioni che le occorrono, in modo che possa iniziare velocemente ad occuparsene.”
Riley si protese verso il fascicolo e poi ritrasse la mano, colta da uno spasmo di orribile ansia.
Che cosa mi prende?
Le iniziò a girare la testa e immagini sfocate apparvero nella sua mente. Era la PTSD del caso Peterson? No, era diverso. Era proprio un’altra cosa.
Riley si alzò dalla sedia e fuggì dalla sala conferenze. Mentre si precipitava lungo il corridoio diretta al proprio ufficio, le immagini nella sua testa a poco a poco divennero più visibili.
Erano volti, volti di donne e ragazze.
Vide Mitzi, Koreen e Tantra—giovani squillo, i cui abiti rispettabili mascheravano la loro degradazione, persino in loro stesse.
Vide Justine, una prostituta avanti con l’età, impegnata a bere in un bar, stanca e amareggiata, e ormai preparata ad affrontare una brutta morte.
Vide Chrissy, imprigionata virtualmente in un bordello, ad opera del suo violento marito protettore.
E infine, come immagine peggiore di tutte, vide Trinda, una quindicenne che aveva già vissuto l’incubo dello sfruttamento sessuale, e che non riusciva ad immaginare un’altra tipologia di vita.
Riley arrivò nel suo ufficio e crollò nella sedia. Ora comprendeva la sua scarica di repulsione. Le immagini che aveva appena visto erano state la causa scatenante. Avevano portato in superficie i suoi timori più oscuri relativi al caso di Phoenix.
Aveva fermato un brutale assassino, ma non aveva fatto giustizia per le donne e le ragazze che aveva incontrato. Restava un intero mondo di sfruttamento. Non aveva nemmeno grattato la superficie delle ingiustizie che subivano.
E adesso, era perseguitata e scossa in un modo che non aveva mai sperimentato prima d’ora. Le sembrava peggio della PTSD. Dopotutto, poteva dare sfogo alla sua rabbia privata e all’orrore in una palestra, allenandosi. Ma non riusciva affatto a liberarsi di queste nuove sensazioni.
E come poteva lavorare ad un altro caso come quello di Phoenix?
Sentì la voce di Bill alla porta.
“Riley.”
La donna sollevò lo sguardo e vide il partner guardarla con un’espressione triste. Aveva in mano il fascicolo che Meredith aveva provato a darle.
“Ho bisogno di te per questo caso” le disse. “Per me, è una questione personale. Mi fa diventare matto il fatto di non riuscire a risolverlo. E non posso fare a meno di chiedermi se il mio insuccesso sia dovuto al fallimento del mio matrimonio. Ho conosciuto la famiglia di Valerie Bruner. Sono delle brave persone. Ma non sono rimasto in contatto con loro, perché … ecco, li ho abbandonati. Devo rimettere le cose al proprio posto con loro.”
L’uomo appoggiò il fascicolo sulla scrivania di Riley.
“Dai soltanto un’occhiata. Per favore.”
Non aggiunse altro e lasciò l’ufficio di Riley, che restò seduta a guardare il fascicolo, colta da uno stato d’indecisione.
Questo non era affatto da lei. Sapeva di doverne uscire fuori.
Mentre rimuginava sul da farsi, ricordò qualcosa dei giorni che aveva passato a Phoenix. Era stata in grado di salvare una ragazza di nome Jilly. O almeno ci aveva provato.
Tirò fuori il cellulare e digitò il numero di un ricovero per adolescenti di Phoenix, Arizona. Una voce familiare giunse in linea.
“Brenda Fitch.”
Riley fu contenta che avesse risposto proprio lei. Aveva imparato a conoscere l’assistente sociale durante il suo caso precedente.
“Salve Brenda” le disse. “Sono Riley. Ho soltanto pensato di chiamare per sapere di Jilly.”
Jilly era una ragazza che Riley aveva salvato dal traffico sessuale: una tredicenne magrissima e dai capelli scuri, senza una famiglia, ad eccezione di un padre violento. Riley aveva chiamato spesso, per accertarsi dello stato di Jilly.
Riley sentì Brenda sospirare.
“Ha fatto bene a chiamare” Brenda disse. “Avrei voluto che più persone avessero mostrato un po’ di interesse. Jolly è ancora con noi.”
Il cuore di Riley sprofondò. Continuava a sperare che un giorno, alla sua domanda, le venisse risposto che Jilly aveva trovato un’amorevole famiglia adottiva. Ma non era quello il giorno. Adesso Riley era preoccupata.
Disse: “L’ultima volta che abbiamo parlato, temeva di doverla rimandare di nuovo dal padre.”
“Oh, no, siamo giunti ad una soluzione legale per questo. Abbiamo ottenuto un ordine restrittivo per tenerlo lontano da lei.”
Riley emise un sospiro di sollievo.
“Jilly chiede continuamente di lei” disse Brenda. “Le piacerebbe parlarle?”
“Sì. La prego.”
Brenda mise Riley in attesa. Quest’ultima si chiese improvvisamente se fosse o meno una buona idea. Ogni volta che parlava con Jilly, finiva per sentirsi in colpa. Non riusciva a comprenderne il motivo però. Dopotutto, aveva salvato Jilly da una vita di sfruttamento e abusi.
Ma salvata per cosa? si chiese. Che tipo di vita doveva attendersi Jilly?
Sentì la voce di Jilly.
“Ehi, Agente Paige.”
“Quante volte devo dirti di non chiamarmi in quel modo?”
“Scusa. Ehi, Riley.”
Riley rise sommessamente.
“Ehi tu. Come stai?”
“Bene, credo.”
Cadde il silenzio.
Una tipica adolescente, Riley pensò. Era sempre difficile far parlare Jilly.
“Allora, che cosa stai facendo?” le chiese Riley.
“Mi sono appena svegliata” la ragazza rispose, sembrando un po’ stordita. “Sto per fare colazione.”
Riley poi si rese conto che erano ben tre ore indietro rispetto a lei a Phoenix.
“Scusami se ho chiamato così presto” Riley disse. “Continuo a dimenticarmi della differenza d’orario.”
“Non fa niente. E’ carino che tu chiami.”
Riley sentì uno sbadiglio.
“Allora, andrai a scuola oggi?” le chiese ancora Riley.
“Sì. Ci fanno uscire ogni giorno dalla gabbia per farlo.”
Era la piccola battuta ricorrente di Jilly, definire il ricovero, “gabbia”, proprio come se fosse una prigione. Riley non trovava la cosa molto divertente.
Riley disse: “Allora ti lascio fare colazione e prepararti.”
“No, aspetta un attimo” la ragazza rispose.
Cadde di nuovo il silenzio e a Riley sembrò di aver sentito Jilly inghiottire un singhiozzo.
“Nessuno mi vuole, Riley” Jilly aggiunse. Ora stava piangendo. “Le famiglie adottive continuano ad evitarmi. Non amano il mio passato.”
Riley era stupita.
Il suo “passato”? pensò. Gesù, come poteva una tredicenne avere un “passato”? Che cosa prende alla gente?
“Mi dispiace” disse Riley.
Jilly parlava a scatti, tra le lacrime.
“E’ come … ecco, sai, è … voglio dire, Riley, sembra che tu sia la sola a cui importi di me.”
La gola doleva alla donna e gli occhi le bruciavano. Non riusciva a rispondere.
Jilly esclamò: “Non potrei venire a vivere con te? Non darei troppo fastidio. Hai una figlia, giusto? Lei potrebbe essere come mia sorella. Potremmo prenderci cura l’una dell’altra. Mi manchi.”
Riley si sforzò di parlare.
“Io … non penso che sia possibile, Jilly.”
“Perché no?”
Riley si sentì devastata. Quella domanda l’aveva colpita come un proiettile.
“Proprio… non è possibile” le disse.
Poteva ancora sentire Jilly piangere.
“Va bene” la ragazza disse. “Devo andare a fare colazione. Ciao.”
“Ciao” rispose Riley. “Ti richiamo presto.”
Sentì un clic, mentre Jilly metteva fine alla telefonata. Riley si curvò sulla scrivania, le lacrime le rigavano il volto. La domanda di Jilly continuava a ripetersi nella sua testa …
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