1 ...7 8 9 11 12 13 ...18 “E ora?” chiese Akorth.
Godfrey si voltò e lo vide guardarlo con espressione accusatoria, dando voce alla domanda che stava sicuramente bruciando nella mente di tutti.
Godfrey si guardò attorno osservando la piccola e buia stanza dove le torce quasi estinte baluginavano. Le loro misere provviste e un fiasco di birra erano tutto ciò che avevano, sistemate in un angolo. Era un’attesa di morte. Poteva ancora sentire il rumore della guerra di sopra, anche attraverso quelle spesse mura, e si chiese quanto a lungo avrebbero potuto ancora evitare quell’invasione. Ore? Giorni? Quanto sarebbe passato prima che i Cavalieri del Sette conquistassero Volusia? Se ne sarebbero andati?
“Non è noi che stanno cercando,” osservò Godfrey. “Si tratta di Impero contro Impero. Hanno una vendetta da perpetrare contro Volusia. Noi non centriamo nulla.”
Silis scosse la testa.
“Occuperanno questo posto,” disse cupamente squarciando il silenzio con la sua voce forte. “I Cavalieri del Sette non si ritirano mai.”
Fecero tutti silenzio.
“Allora quanto possiamo vivere qua sotto?” chiese Merek.
Silis scosse la testa e diede un’occhiata alle loro provviste.
“Una settimana forse,” rispose.
Vi fu un improvviso e tremendo rimbombo da sopra e Godfrey rabbrividì sentendo il terreno tremare sotto di sé.
Silis balzò in piedi, agitata, e iniziò a camminare osservando il soffitto da dove iniziava a filtrare la polvere che ricadeva su di loro. Sembrava ci fosse stata una valanga di pietra sopra di loro e lei valutò la situazione da proprietaria preoccupata.
“Hanno distrutto il mio castello,” disse, parlando più con se stessa che con loro.
Godfrey vide un’espressione preoccupata sul suo volto e vi riconobbe l’aspetto di chi ha perso tutto ciò che aveva.
Silis si voltò a guardarlo con riconoscenza.
“Sarei là sopra adesso se non fosse stato per te. Ci hai salvato la vita.”
Godfrey sospirò.
“E per cosa?” chiese irritato. “Quale vantaggio ci ha portato? Di morire qua sotto?”
Silis apparve tetra.
“Se restiamo qui,” chiese Merek, “moriremo tutti?”
Silis si voltò verso di lui e annuì tristemente.
“Sì,” rispose inespressiva. “Non oggi o domani, ma nel giro di pochi giorni sì. Non possono arrivare quaggiù, ma noi non possiamo salire di sopra. Molto presto finiremo le provviste.”
“Allora cosa facciamo?” chiese Ario guardandola. “Hai in programma di morire qua sotto? Perché io proprio no.”
Silis continuò a camminare con la fronte corrugate e Godfrey vide che stava pensando profondamente.
Poi finalmente si fermò.
“C’è una possibilità,” disse. “È rischioso. Ma potrebbe anche funzionare.”
Si voltò a guardarli e Godfrey trattenne il respiro con speranza e anticipazione.
“Ai tempi di mio padre c’era un passaggio sotterraneo sotto il castello,” disse. “Passava attraverso le mura del palazzo. Potremmo trovarlo, se ancora esiste, e andarcene di notte, con la copertura dell’oscurità. Possiamo cercare di attraversare la città fino al porto. Possiamo prendere una delle mie navi, se ne sono rimaste, e andarcene da questo posto.”
Un lungo e insicuro silenzio calò nella stanza.
“Rischioso,” disse infine Merek con tono greve. “La città sarà piena di soldati dell’Impero. Come possiamo attraversarla senza essere uccisi?”
Silis scrollò le spalle.
“Vero,” disse. “Se ci prendono ci uccideranno. Ma se emergiamo quando è buio e uccidiamo tutti quelli che troviamo sulla nostra strada, forse raggiungeremo il porto.”
“E se troviamo il passaggio e raggiungiamo il porto e poi le tue navi non sono lì?” chiese Ario.
Lei lo guardò.
“Nessun piano è sicuro,” disse. “Potremmo benissimo morire là fuori, come potremmo morire qua sotto.”
“La morte arriva per tutti,” si intromise Godfrey sentendo un nuovo senso di convinzione mentre si alzava in piedi e guardava gli altri, provando una sensazione di risoluzione che sopraffaceva le sue paure. “Si tratta di come preferiamo morire: qua sotto nascosti come ratti? O là sopra diretti verso la nostra libertà?”
Lentamente, uno alla volta, anche gli altri si alzarono. Lo guardarono tutti e annuirono solennemente.
In quel momento capì che il piano era stato deciso: quella notte sarebbero fuggiti.
Loti e Loc camminavano fianco a fianco sotto il bruciante sole del deserto, incatenati l’uno all’altra e frustati dal supervisore dell’Impero alle loro spalle. Camminavano attraverso al desolazione e Loti si chiese ancora una volta perché suo fratello si fosse offerto volontario per quel pericoloso e faticosissimo lavoro. Era forse impazzito?
“Cosa stavi pensando?” gli sussurrò. Vennero spinti da dietro e mentre Loc perdeva l’equilibrio ed inciampava in avanti Loti lo prese per il braccio buono prima che cadesse.
“Perché avresti dovuto offrirci entrambi volontari?” chiese.
“Guarda avanti,” le disse riprendendo l’equilibrio. “Cosa vedi?”
Loti sollevò lo sguardo e non vide altro che monotono deserto che si allungava davanti a loro, pieno di schiavi, il terreno di dura roccia. Oltre a questo vide una salita che conduceva a un crinale in cima al quale lavoravano una decina di altri schiavi. Ovunque c’erano supervisori, il rumore delle fruste era pesante nell’aria.
“Non vedo niente,” rispose impaziente. “Sempre lo stesso: schiavi che vengono sfruttati fino alla morte dai supervisori.”
Loti sentì improvvisamente un profondo dolore alla schiena, come se le stessero strappando la pelle, e gridò mentre la frustavano e la frusta le tagliava la pelle.
Si voltò e vide il volto accigliato del supervisore alle sue spalle.
“Fai silenzio!” le ordinò.
Loti aveva voglia di gridare per l’intenso dolore, ma trattenne la lingua e continuò a camminare accanto a Loc con le catene che tintinnavano sotto il sole. Giurò di uccidere tutti quegli uomini dell’Impero non appena avesse potuto.
Continuarono a camminare in silenzio: l’unico rumore era quello dei loro stivali che facevano scricchiolare la roccia sotto di essi. Alla fine Loc le si avvicinò di più.
“Non è quello che vedi,” le sussurrò, “ma quello che non vedi. Guarda meglio. Lassù, sulla dorsale.”
Lei osservò meglio il paesaggio ma non vide niente.
“Non c’è che un supervisore lassù. Uno. Per due decine di schiavi. Guarda dietro, nella vallata, e guarda quanti ce ne sono.”
Loti si guardò furtivamente alle spalle e nella valle che si allungava lì vide decine di supervisori che sorvegliavano gli schiavi mentre rompevano la roccia e dissodavano la terra. Si voltò a guardare di nuovo in cima al crinale e capì per la prima volta cosa suo fratello avesse in mente. Non solo c’era solamente un supervisore, ma ancora meglio: c’era una zerta accanto a lui. Un mezzo di fuga.
Era impressionata.
Lui le fece un cenno eloquente.
“La cima del crinale è la postazione più pericolosa,” le sussurrò. “Quella più calda e meno desiderata dagli schiavi e dai supervisori. Ma questa, sorella mia, è un’opportunità.”
Loti ricevette improvvisamente un calcio alla schiena e inciampò in avanti insieme a Loc. I due si raddrizzarono e continuarono a risalire il pendio, Loti ansimando per prendere fiato e cercando di resistere sotto il calore che cresceva man mano che salivano. Ma questa volta, sollevando lo sguardo, il cuore le si gonfiò di ottimismo battendole più forte in gola: finalmente avevano un piano.
Loti non aveva mai considerato suo fratello come coraggioso, come desideroso di rischiare, di affrontare l’Impero. Ma ora, mentre lo guardava, poteva vedere la disperazione nei suoi occhi, poteva finalmente vedere che stava pensando quanto lei. Lo vide sotto una nuova luce e lo ammirò fortemente per questo. Era esattamente il tipo di piano che lei stessa avrebbe potuto programmare.
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