Fece un ampio sorriso.
“Quindi vedi,” aggiunse, “hai commesso lo stesso errore di tanti altri potenziali conquistatori prima di te. Ti sei fidata della stregoneria per avvicinarti alla capitale e ora ne pagherai il prezzo.”
Lungo i bastioni suonarono dei corni e Volusia si voltò scioccata di vedere un esercito di soldati allinearsi all’orizzonte. Riempivano di nero la linea dell’orizzonte, erano centinaia di migliaia, un esercito vastissimo, molto più grande degli uomini che aveva alle sue spalle. Erano stati tutti chiaramente in attesa dietro alle mura, dalla parte opposta della capitale, nel deserto, in attesa del comando da parte del loro generale. Non solo era incappata in un’altra battaglia, ma in una guerra vera e propria.
Suonò un altro corno e improvvisamente le massicce porte d’oro davanti a lei iniziarono ad aprirsi. Mentre si allargavano sempre di più dall’interno giunse un forte grido di battaglia e migliaia di soldati dell’Impero emersero lanciandosi contro di loro.
Nello stesso istante anche le centinaia di migliaia di soldati all’orizzonte si lanciarono all’attacco, dividendo l’esercito attorno alla città e attaccando da entrambe le parti.
Volusia rimase ferma, sollevò un pugno in alto e poi lo abbassò di scatto.
Dietro di lei il suo esercito lanciò un grido di battaglia e corse in avanti per scontrarsi con gli uomini dell’Impero.
Volusia sapeva che quella sarebbe stata la battaglia che avrebbe deciso il destino della capitale, il vero destino dell’Impero. I suoi stregoni l’avevano abbandonata, ma i suoi soldati non l’avrebbero fatto. Dopotutto lei poteva essere più brutale di qualsiasi altro uomo e non aveva bisogno della stregoneria per farlo.
Vide gli uomini venire verso di lei e rimase ferma al suo posto, assaporando la possibilità di uccidere o essere uccisa.
Gwendolyn aprì gli occhi sentendo una fitta e un bozzo sulla testa. Si guardò attorno disorientata. Vide che si trovava stesa sul fianco, su una dura piattaforma di legno, e che tutto le ruotava attorno. Udì un piagnucolio e sentì qualcosa di umido sulla guancia. Girandosi vide Krohn accoccolato accanto a lei intento a leccarle la faccia. Il cuore le si gonfiò di gioia. Krohn sembrava malaticcio, affamato, esausto, ma almeno era vivo. Questo era tutto ciò che contava. Anche lui era sopravvissuto.
Gwen si leccò le labbra e si rese conto che non erano più secche come prima. Fu sollevata di poterle addirittura leccare, dato che prima la sua lingua era stata troppo gonfia anche solo per muoversi. Sentì un rivoletto d’acqua fresca entrarle in bocca e vide con la coda dell’occhio uno di quei nomadi del deserto vicino a lei con un fiasco in mano. Gwen leccò l’acqua con piacere fino a che lui smise di versarla.
Quando ritrasse la mani Gwen gli afferrò un polso e lo tirò verso Krohn. Inizialmente il nomade parve sorpreso, ma poi capì e versò dell’acqua anche nella bocca del leopardo. Gwen si sentì sollevata guardando Krohn che lappava l’acqua e beveva rimanendo sdraiato, ansimante, accanto a lei.
Gwen sentì un’altra fitta alla testa, un altro colpo mentre la piattaforma tremava. Si guardò attorno, si girò di lato e non vide altro che cielo davanti a sé, le nuvole che scorrevano sopra di lei. Sentì il corpo sollevarsi, sempre più in alto in aria a ogni colpo, non capendo cosa stesse accadendo né dove si trovasse. Non aveva la forza di mettersi a sedere, ma poteva allungare il collo abbastanza da vedere che era sdraiata su un’ampia piattaforma di legno sostenuta da corde a ogni estremità. Qualcuno dall’alto stava tirando le funi, facendole scricchiolare, e a ogni strattone la piattaforma si sollevava sempre di più. La stavano issando lungo delle ripide e interminabili pareti rocciose, le stesse pareti che aveva visto prima di perdere i sensi. Quelle stesse pareti in cima alle quali si trovavano bastioni e scintillanti cavalieri.
Ricordando Gwen si voltò e allungò il collo guardando in basso. Subito le girò la testa: si trovavano a decine di metri da terra e salivano sempre più.
Si rigirò e guardò in alto. Una trentina di metri sopra di loro vide dei bastioni, anche se la visuale era oscurata dal sole. I cavalieri guardavano verso il basso ed erano sempre più vicini a ogni colpo di fune.
Gwen si voltò immediatamente e scrutò la piattaforma, sentendosi traboccante di sollievo vedendo che tutta la sua gente era ancora con lei: Kendrick, Sandara, Steffen, Arliss, Aberthol, Illepra, la piccola Krea, Stara, Brandt, Atme e diversi guerrieri dell’Argento. Si trovavano tutti stesi su delle piattaforme, tutti sorvegliati dai nomadi che versavano acqua nelle loro bocche e sui loro volti. Gwen provò un’ondata di gratitudine nei confronti di quelle strane creature nomadi che avevano salvato loro la vita.
Chiuse nuovamente gli occhi, pose la testa sul duro legno, sentendo Krohn raggomitolato accanto a lei, e la testa le parve pesare tonnellate. Tutto era comodamente silenzioso, lassù non c’era alcun suono se non quello del vento e dello scricchiolio delle funi. Aveva fatto un viaggio così lungo e per così tanto tempo: si chiese quando sarebbe finito. Presto si sarebbero trovati in cima, e pregava solo che i cavalieri, chiunque fossero, fossero ospitali come quei nomadi del deserto.
A ogni strattone della fune i soli si facevano sempre più forti, sempre più caldi, nessuna ombra sotto la quale ripararsi. Si sentiva quasi sul punto di friggere, come se la stessero portando verso il centro del sole.
Gwendolyn aprì gli occhi sentendo un ultimo scossone e si rese conto di essersi addormentata un’altra volta. Percepì del movimento e si accorse che i nomadi la stavano trasportando con cautela posando lei e la sua gente di nuovo sui teli di stoffa e trasportandoli dalla piattaforma ai parapetti. Si sentì alla fine appoggiata giù, delicatamente, sul pavimento di pietra. Sollevò lo sguardo e sbatté le palpebre diverse volte al sole. Era troppo stanca per sollevare il collo, non era sicura di essere ancora sveglia o di sognare.
Vide decine di cavalieri che le si avvicinavano, vestiti con maglie di ferro e placche completamente immacolate e luccicanti. Le si appressarono attorno guardandola con curiosità. Gwen non riusciva a capire come dei cavalieri potessero trovarsi in quel grandioso deserto, in quella vasta desolazione nel mezzo del nulla; come potessero stare di guardia in cima a quell’immenso crinale, sotto i due soli. Come potevano sopravvivere là? Cosa stavano sorvegliando? Dove trovavano delle armature così regali? Era tutto un sogno?
Addirittura l’Anello, con la sua antica tradizione di grandezza, aveva delle armature poco paragonabili a quelle che indossavano quegli uomini. Erano le più intricate sulle quali avesse mai posato lo sguardo, forgiate in argento e platino, oltre a qualche altro materiale che non conosceva, decorate con segni complessi. Anche le armi erano ben abbinate ad esse. Era chiaro che quei soldati erano professionisti. La fecero pensare a quando era una ragazzina e accompagnava suo padre al campo: lui le mostrava i soldati e lei li vedeva allineati in tutto il loro splendore. Gwendolyn si chiedeva come una tale bellezza potesse esistere, come potesse essere possibile. Forse era morta e quella era la sua visione del paradiso.
Ma poi sentì uno di essi avvicinarsi portandosi davanti agli altri, togliersi l’elmo e guardarla con i suoi brillanti occhi blu pieni di saggezza e compassione. Aveva forse trent’anni e un aspetto bellissimo, la testa calva e la barba biondo chiaro. Era evidente che si trattava dell’ufficiale incaricato.
Il cavaliere rivolse la sua attenzione ai nomadi.
“Sono vivi?” chiese.
Uno dei nomadi, in risposta, allungò il suo bastone e picchiettò delicatamente Gwendolyn che quindi si spostò. Avrebbe voluto più di ogni altra cosa mettersi a sedere, parlare con loro, scoprire chi fossero. Ma era troppo stanca e aveva la gola troppo secca per rispondere.
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