Godfrey chiuse gli occhi e scosse la testa cercando di scacciare quel ricordo, desiderando che la notte fosse andata in modo diverso. Aveva inconsapevolmente permesso a Dario e agli altri di entrare nella città, come agnelli al macello. Continuava a sentire nella sua mente le grida di quegli uomini che cercavano di combattere per salvarsi, che cercavano di scappare. Quel suono gli rimbombava nel cervello e non gli lasciava pace.
Godfrey si strinse le orecchie cercando di eliminare tutto, di non sentire i lamenti di Akorth e Fulton, entrambi chiaramente doloranti per le contusioni ottenute in una notte spesa a dormire su un duro pavimento di pietra.
Godfrey si mise a sedere sentendosi la testa pesante e si guardò attorno: era una piccola cella con all’interno solo lui e i suoi amici, oltre a pochi altri che non conosceva. Provò una certa consolazione nel constatare che, dato quanto la cella apparisse cupa, la morte sarebbe presto arrivata per loro. Quella prigione era chiaramente diversa dall’ultima in cui erano stati, sembrava più una cella provvisoria per coloro che stavano per essere giustiziati.
Godfrey udì da qualche parte in lontananza le grida di un prigioniero che veniva trascinato via lungo il corridoio e capì: quel luogo era davvero una stanza di custodia per i condannati a morte. Aveva udito di altre esecuzioni a Volusia e sapeva che lui e gli altri sarebbero stati trascinati fuori alla prima luce del giorno e sarebbero diventati intrattenimento da arena, così che i bravi cittadini potessero guardarli essere fatti a pezzi da qualche razif prima dell’inizio dei giochi dei gladiatori. Era solo per questo che li avevano tenuti in vita. Almeno ora capiva.
Godfrey si voltò appoggiandosi su mani e ginocchia e diede dei colpetti a ciascuno dei suoi amici, cercando di farli rinvenire. Gli girava la testa e ogni angolo del corpo gli faceva male; si sentiva ricoperto di bozzi e lividi che dolevano quando si muoveva. Il suo ultimo ricordo era di un soldato che lo gettava a terra e si rese conto che dovevano averlo preso a pugni anche dopo averlo messo fuori combattimento. Quei Finiani, quei codardi traditori non avevano evidentemente in mente di ucciderlo con le loro mani.
Godfrey si portò una mano alla fronte, stupefatto che potesse fargli così male senza aver bevuto neppure un goccio. Si mise instabilmente in piedi, con le ginocchia che barcollavano, e si guardò attorno nella cella buia. C’era un’unica guardia fuori dalle sbarre che gli dava la schiena e non lo guardava neppure. Ma quelle celle erano comunque fatte di spesse sbarre di ferro e lucchetti non indifferenti: Godfrey capì che non sarebbe stato facile scappare questa volta. Questa volta erano veramente a un passo dalla morte.
Lentamente accanto a lui Akorth, Fulton, Ario e Merek si misero in piedi e iniziarono ad osservare il posto come lui. Vide la confusione e la paura nei loro occhi, poi il rammarico mentre iniziavano a ricordare.
“Sono morti tutti?” chiese Ario guardando Godfrey.
Godfrey provò una fitta allo stomaco e lentamente annuì.
“È colpa tua,” disse Merek. “Li abbiamo traditi.”
“Sì, è vero,” rispose Godfrey con voce rotta.
“Ti avevo detto di non fidarti dei Finiani,” disse Akorth.
“La questione non è di chi sia la colpa,” disse Ario, “ma cosa abbiamo intenzione di fare. Vogliamo che tutti i nostri fratelli e sorelle siano morti invano? O pensiamo di vendicarci?”
Godfrey scorse la serietà nel volto del giovane Ario e fu impressionato dalla sua determinazione d’acciaio, anche mentre si trovava imprigionato e prossimo alla morte.
“Vendetta?” chiese Akorth. “Sei pazzo? Siamo chiusi a chiave sottoterra, sorvegliati da guardie dell’Impero e da sbarre di ferro. Tutti i nostri uomini sono morti. Ci troviamo nel mezzo di una città ostile, contro un esercito ostile. Tutto il nostro oro è sparito. I nostri piani sono andati a rotoli. Quale possibile vendetta possiamo mai mettere in atto?”
“C’è sempre un modo,” disse Ario determinato. Si voltò verso Merek.
Tutti gli occhi si girarono verso Merek e lui corrugò la fronte.
“Non sono esperto in vendette,” disse Merek. “Uccido gli uomini quando mi infastidiscono. Non aspetto.”
“Ma sei un ladro provetto,” disse Ario. “Hai trascorso tutta la tua vita in una cella di prigione, come hai detto tu stesso. Sicuramente puoi tirarci fuori da qui.”
Merek si voltò e guardò attentamente la cella, le sbarre, le finestre, le chiavi, le guardie, tutto con occhi esperto e attento. Considerò ogni cosa, poi tornò a guardare i compagni con espressione cupa.
“Questa non è una normale cella di prigione,” disse. “Dev’essere una cella finiana. Un lavoro molto costoso. Non vedo nessun punto debole, nessuna via d’uscita, per quanto vorrei tantissimo potervi dire diversamente.”
Godfrey, sentendosi sopraffatto dalle emozioni e cercando di non pensare alle grida degli altri prigionieri dall’altra parte del corridoio, si avvicinò alla porta della prigione, spinse la fronte contro il freddo e pesante ferro e chiuse gli occhi.
“Portatelo qui!” tuonò una voce lungo il corridoio.
Godfrey aprì gli occhi, voltò la testa e guardò vedendo numerosi soldati dell’Impero che trascinavano un prigioniero. L’uomo indossava una fascia rossa sulle spalle e attorno al petto e stava inerme tra le loro braccia senza opporre resistenza. In effetti, man mano che si avvicinava, Godfrey notò che dovevano trascinarlo, dato che era privo di conoscenza. C’era chiaramente qualcosa che non andava in lui.
“Mi portate un’altra vittima della peste?” gridò la guardia con tono derisorio. “Cosa vi aspettate che ne faccia?”
“Non è un nostro problema!” risposero gli altri.
La guardia di servizio aveva un’espressione spaventata mentre tendeva le mani.
“Io non lo tocco!” disse. “Mettetelo laggiù, nella fossa insieme agli altri appestati!”
Le guardie lo guardarono con sguardo interrogativo.
“Ma non è ancora morto,” risposero.
La guardia di servizio lanciò loro un’occhiataccia.
“Pensate che mi interessi?”
Le guardie si scambiarono uno sguardo poi fecero come gli era stato detto, trascinandolo attraverso il corridoio e gettandolo in una grande fossa. Godfrey vide che era piena di corpi, tutti ricoperti dalla stessa fascia rossa.
“E se cerca di scappare?” chiesero le guardie prima di voltarsi.
Il soldato mostrò un sorriso crudele.
“Non sapete cosa fa la peste agli uomini?” chiese. “Entro mattina sarà morto.”
Le due guardie si voltarono e se ne andarono e Godfrey guardò l’appestato che giaceva tutto solo nella fossa non sorvegliata. Subito gli venne un’idea. Era un’idea folle, ma proprio per questo avrebbe potuto funzionare.
Si voltò verso Akorth e Fulton.
“Datemi un pugno,” disse.
I due compagni si scambiarono uno sguardo confuso.
“Vi ho detto di darmi un pugno!” disse Godfrey.
Loro scossero la testa.
“Sei pazzo?” chiese Akorth.
“Io non ti do nessun pugno,” disse Fulton, “per quanto te lo meriteresti.”
“Vi sto dicendo di darmi un pugno!” chiese Godfrey. “Forte. In faccia. Spaccatemi il naso! ADESSO!”
Ma Akorth e Fulton si voltarono.
“Hai perso il cervello,” dissero.
Godfrey si voltò verso Merek ed Ario, ma anche loro si fecero indietro.
“Di qualsiasi cosa si tratti,” disse Merek, “non voglio esserne parte.”
Improvvisamente uno dei prigionieri nella cella si gettò su Godfrey.
“Non ho potuto fare a meno di sentire,” disse ghignando e mostrando un sorriso privo di qualche dente, alitandogli il suo fiato stantio in viso. “Sarò più che felice di darti un pugno, almeno chiuderai il becco! Non c’è bisogno che tu me lo chieda due volte.”
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