1 ...6 7 8 10 11 12 ...16 “Mio Signore?”
Sentì una mano leggera sulla sua, e si voltò a guardare la sua Regina, Krea, ancora la più bella donna che avesse mai incontrato. Aveva sposato con gioia lui e il suo regno, gli aveva dato cinque figli, di cui tre maschi, e non si era mai lamentata una sola volta. Per di più, era diventata la sua più fidata consigliera. Con il passare degli anni aveva imparato che lei era molto più saggia di tutti i suoi uomini, in effetti più saggia anche di lui stesso.
“È un giorno di politica,” disse lei. “Ma anche il matrimonio di nostra figlia. Cerca di godertelo. Non accadrà una seconda volta.”
“Mi preoccupavo meno quando non possedevo nulla,” rispose lui. “Ora che abbiamo tutto, ogni cosa mi preoccupa. Siamo al sicuro. Ma non mi sento al riparo.”
Lo fissò in volto con i suoi occhi color nocciola, grandi e pieni di compassione: sembrava che potessero contenere la saggezza del mondo intero. Le palpebre erano un po’ abbassate, come sempre, e le donavano quell’aspetto un po’ sornione, incorniciate dai suoi bellissimi capelli lisci e castani, che ricadevano su entrambi i lati del volto, leggermente ingrigiti. Aveva qualche ruga in più, ma non era cambiata neanche un poco.
“È perché tu non sei al sicuro,” disse. “Nessun re lo è. Ci sono più spie nella nostra corte che tu possa mai pensare. Ed così che vanno le cose.”
Si sporse in avanti a baciarlo, poi sorrise.
“Cerca di divertirti,” disse. “Dopotutto è un matrimonio.”
Detto questo si voltò ed uscì dal bastione.
La guardò andarsene, poi si voltò ad osservare la sua corte. Aveva ragione, lei aveva sempre ragione. Lui voleva godersela, quella giornata. Amava la sua primogenita, ed era un matrimonio, del resto. Era la più bella giornata del più bel periodo dell’anno, il cuore della primavera, con l’estate che già si intravedeva, i due soli perfetti nel cielo e il soffio di una mite brezza. Tutto era in piena fioritura, gli albero ovunque ricoperti da un’ampia tavolozza di rosa e viola e arancio e bianco. Non cera nulla che desiderasse di più che scendere ed andare a sedersi tra i suoi uomini, guardare sua figlia che si sposava, e bere boccali di birra fino a non poterne più.
Ma non poteva. C’era una lunga lista di doveri da espletare prima di poter anche solo mettere piede fuori dal suo castello. Dopotutto il matrimonio di una figlia implicava una serie di doveri per un re: doveva riunirsi con il suo consiglio, con i suoi figli, e doveva dare udienza ad una lunga fila di supplicanti che avevano il diritto di vedere il re durante quella giornata. Sarebbe stato fortunato se fosse riuscito a lasciare il castello in tempo per la cerimonia del tramonto.
*
MacGil, vestito con il miglior paramento reale – pantaloni di velluto nero, cintura dorata, tunica reale della più raffinata seta viola e dorata, mantello bianco e stivali di cuoio splendente alti fino ai polpacci – con tanto di corona (una fascia d’oro decorato con un grande rubino incastonato al centro), avanzava con incedere fiero lungo i corridoi del castello, con i suoi attendenti al seguito. Procedeva a grandi passi passando di stanza in stanza, percorrendo i gradini che scendevano dalla balaustra, attraversando le sue stanze reali, il grande salone dall’altissimo soffitto ad arco e dalle vetrate colorate. Alla fine raggiunse un’antica porta di quercia, spessa quanto il tronco di un albero, che i suoi servitori aprirono prima di farsi da parte e lasciarlo passare. La Sala del Trono.
I suoi consiglieri erano in piedi sull’attenti quando MacGil entrò, e la porta sbatté chiudendosi alle sue spalle.
“Sedetevi,” disse, più bruscamente del solito. Era stanco, soprattutto in un giorno come quello, delle infinite formalità necessarie per governare il regno, e voleva finirla in fretta.
Attraversò a grandi passi la Sala del Trono, che mai smetteva di impressionarlo: il soffitto alto cinquanta piedi, un’intera parete costituita da una vetrata colorata, pavimento e pareti fatti di pietra spessa un piede. La stanza poteva tranquillamente contenere un centinaio di dignitari. Ma in giornate come quella, quando veniva convocato il suo consiglio, venivano a trovarsi in quella cavernosa ambientazione solo lui e una manciata di consiglieri. La stanza era dominata da un ampio tavolo a forma di semicerchio, dietro al quale stavano in piedi i suoi consiglieri.
Il re avanzò attraverso il passaggio, collocato proprio nel mezzo, fino al suo trono. Salì i gradini di pietra, oltrepassò i leoni di oro intarsiato e sprofondò nel cuscino di velluto rosso che ricopriva il suo trono, lavorato interamente in oro. Suo padre aveva seduto su quello stesso trono, e così aveva fatto il padre di suo padre, e tutti i MacGil prima di lui. Quando si sedeva lì, MacGil sentiva il peso dei suoi antenati, di tutte le generazioni, gravare su di lui.
Scrutò i consiglieri che erano in attesa. C’era Brom, il suo primo generale e consigliere in questioni militari; Kolk, il generale della Legione dei ragazzi; Aberthol, il più anziano del gruppo, uno studioso e storico, mentore dei re da tre generazioni; Firth, suo consigliere in affari interni alla corte, un uomo magro con i capelli corti e grigi ed occhi infossati che non stavano mai fermi. Era un uomo per il quale MacGil non aveva mai provato una particolare fiducia, non aveva neanche mai capito quale fosse il suo titolo. Ma suo padre, ed il padre di suo padre prima di lui, tenevano un consigliere per affari di corte, e quindi lui l’aveva mantenuto per rispetto nei loro confronti. C’era Owen, il suo tesoriere; Bradaigh, suo consigliere negli affari esterni; Earnan, il suo esattore delle tasse; Duwayne, suo consigliere sulle masse; e Kelvin, il rappresentante dei nobili.
Ovviamente il Re aveva autorità assoluta. Ma il suo era un regno liberale, e i suoi predecessori erano sempre stati orgogliosi di permettere alla nobiltà di avere voce in ogni questione per mezzo di un loro rappresentante. Storicamente l’equilibrio di potere tra la regalità e la nobiltà non era mai stato cosa facile. Ora c’era armonia, ma in altri tempi si erano verificate insurrezioni e lotte di potere tra i nobili e la famiglia reale. Quello attuale era un buon equilibrio.
Osservando la stanza e i presenti, MacGil notò che mancava una persona, proprio l’uomo con il quale desiderava parlare di più. Argon. Come al solito, quando e dove sarebbe apparso non era prevedibile. Questo faceva infuriare MacGil a non finire, ma non c’era altra scelta che accettare la situazione. I modi dei druidi erano imperscrutabili per lui. Senza la sua presenza, MacGil sentì la necessità di concludere ancora più in fretta. Voleva portare a termine quella formalità e fare le altre mille cose che gli spettavano prima del matrimonio.
Il gruppo di consiglieri sedeva di fronte a lui, attorno al tavolo semicircolare, a dieci piedi l’uno dall’altro, ognuno di loro seduto su una sedia di quercia antica con braccioli di legno decorati da elaborati intarsi.
“Mio signore, se posso cominciare,” prese la parola Owen.
“Permesso concesso. E falla breve. Ho i tempi stretti oggi.”
“Vostra figlia riceverà una grande quantità di doni oggi, che speriamo staranno tutti nei suoi forzieri. Le migliaia di persone che rendono omaggio presentando doni personalmente a voi, e riempiono i nostri bordelli e le nostre taverne, daranno pure un contributo a colmare le casse. Ciononostante i preparativi per le celebrazioni di oggi consumeranno buona parte del tesoro reale. Consiglio quindi un aumento delle tasse sulla popolazione e sui nobili. Una tassa una tantum, per alleviare la pressione generata da questo grande evento.”
MacGil scorse la preoccupazione sul volto del suo tesoriere, e lo stomaco gli si strinse al pensiero che il tesoro reale potesse esaurirsi. Tuttavia non aveva intenzione di aumentare ancora le tasse.
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