Benito Mussolini - La Marcia su Roma

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In questa raccolta vengono presentati articoli scritti sul «Popolo d'Italia» da Benito Mussolini e altri discorsi e scritti tra il 1921 e 1922.La retorica e la propaganda del fondatore e capo del fascismo direttamente dalla sua penna.

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Nell’ Avanti! del 18 giugno, edizione milanese, è detto:

«Noi non predichiamo la vendetta, come fanno i nostri avversari. Pensiamo all’ascesa maestosa dei popoli e delle classi con opera pacifica e feconda pur nelle inevitabili, anzi necessarie, lotte civili. Se questo è il vostro punto di vista, o signori, sta a voi illuminare gli incoscienti e disarmare i criminali. Noi abbiamo già detto la nostra parola, abbiamo già compiuto la nostra opera».

Ora io ribatto che anche voi dovete illuminare gli incoscienti, che ritengono che noi siamo degli scherani del capitalismo, degli agrari e del Governo; dovete disarmare anche i criminali, perché abbiamo nel nostro martirologio 176 morti. Se voi farete questo, allora sarà possibile segnare la parola «fine» al triste capitolo della guerra civile in Italia.

Non dovete pensare che in noi non vibrino sentimenti di umanità profonda. Noi possiamo dire come Terenzio: siamo umani e niente di quanto è umano ci è straniero.

Ma il disarmo non può essere che reciproco. Se sarà reciproco, si avvererà quella condizione di cose che noi ardentemente auspichiamo, perché, andando avanti di questo passo, la nazione corre serio pericolo di precipitare nell’abisso. ( Commenti ).

Siamo in un periodo decisivo; lealtà per lealtà, prima di deporre le nostre armi, disarmate i vostri spiriti.

Ho parlato chiaro: attendo che la vostra risposta sia altrettanto alta e chiara.

Ho finito. (Vivissimi e reiterati applausi all’estrema destra, commenti prolungati, molte congratulazioni).

DISCIPLINA

ROMA, 23, notte

Gli ultimi, tragici avvenimenti che da Viterbo a Sarzana hanno funestato la vita del fascismo italiano, rappresentano lo sbocco logico di una crisi che da alcuni mesi travaglia la nostra organizzazione: crisi di sviluppo e conseguentemente crisi di disciplina. Con lo sviluppo enorme preso dal nostro movimento sono confluiti nei Fasci migliaia di individui che hanno interpretato il fascismo come una difesa di determinati interessi personali e come una organizzazione delle violenze per la violenza.

Parecchie volte su queste colonne fu detto che la nostra violenza doveva essere cavalleresca, aristocratica, chirurgica, e quindi, in un certo senso, umana. Ma fu detto invano. Qua e là la violenza di individui e di gruppi fascisti ha assunto in questi ultimi tempi caratteri assolutamente antagonistici con lo spirito del fascismo. Lo sviluppo del movimento provocava la crisi della disciplina nella sua compagine. Per ovviare ai pericoli mortali di questa crisi, mortali per la nazione e per il fascismo, una serie di misure si imponeva e sono quelle che su mia proposta sono state accettate all’unanimità nell’ultima seduta del Consiglio nazionale. Dall’esito di queste misure, che dovranno essere immediatamente applicate, dipenderà il mio atteggiamento futuro. Nessuno, spero, vorrà contestarmi il diritto di vigilare sulle sorti di un movimento che fu fondato da me e sorretto da me nei tempi felici e in quelli tempestosi. Si tratta di ristabilire prontissimamente il senso della disciplina individuale e collettiva, ricordando che in un paese come l’Italia, anarcoide nelle tendenze e negli spiriti, il fascismo si annunziò come un movimento di restaurazione della disciplina. Ora non si può pretendere di imporre una disciplina alla nazione se non si è capaci dell’autodisciplina.

Una circolare a tutti i Fasci, che sarà resa di pubblica ragione, perché siamo ancora troppo forti per masturbarci nelle ridicole clandestinità di Pulcinella, fissa le nuove, severe norme della nostra disciplina. Chi non le accetta, se ne andrà. In Italia c’è posto per tutti. Ma è necessario stabilire che le violenze di ordine individuale, quando non siano legittimate dalla difesa, non sono aristocratiche e quindi non sono fasciste. È necessario proclamare senza equivoci che, meno casi imprevedibili, non si deve rispondere con rappresaglie di ordine collettivo ad offese di ordine individuale, poiché questa tattica ci ha enormemente danneggiato scatenando ondate di odio e di incomprensione contro di noi. È necessario subitissimo che i direttori dei Fasci rivedano con la massima diligenza il ruolino degli iscritti per allontanare senza remissione tutte le scorie, tutti gli incerti, tutti gli indisciplinati, tutti coloro, in una parola, che rappresentano una passività per il fascismo.

È necessario che le funzioni delicatissime del comando delle squadre siano affidate ad uomini che abbiano attitudini al comando e cioè sangue freddo, coraggio ed alto senso di responsabilità. Di altri provvedimenti minori non è il caso di parlare. Tutto ciò è indipendente dal risultato delle trattative di pacificazione. Che si arrivi o no alla conclusione di queste trattative, i provvedimenti che abbiamo elencati si impongono.

I fascisti tutti comprendono la necessità di agire per ridare al nostro movimento la sua piena efficenza morale e materiale.

Nello stesso tempo l’adunata a Milano di tutta la stampa fascista, la utilizzazione dei deputati a scopo di propaganda, le adunate delle federazioni provinciali, serviranno a coordinare il nostro movimento.

Io ho piena fiducia che il fascismo italiano supererà questa che non è una crisi tendenziale, come quelle che affliggono perennemente i partiti dogmatici, ma una crisi interna di disciplina. I nemici o i tepidi amici avranno, io spero, occasione di disingannarsi nelle loro previsioni catastrofiche circa l’avvenire del movimento fascista. I nostri indimenticabili morti, meravigliose giovinezze che non è lecito buttare leggermente allo sbaraglio, c’impongono il comandamento dell’ora: obbedire. E soprattutto ci dicono che la «fazione» non deve assassinare la «nazione» e che, al di sopra degli odi, degli amori e delle passioni, la realtà suprema ha un nome solo: Italia!

MUSSOLINI

Da Il Popolo d’Italia , N. 176, 24 luglio 1921, VIII.

FATTO COMPIUTO

ROMA, 2, notte

Il trattato di pacificazione fra i Fasci italiani di Combattimento e le rappresentanze della direzione del Partito Socialista Italiano e della Confederazione Generale del Lavoro è stato firmato. È dunque un fatto compiuto.

A tale risultato si è giunti dopo moltissime difficoltà. La navigazione verso il porto, che la coscienza nazionale nel suo intimo sospirava ardentemente, è stata continuamente osteggiata da scogli e da foschie.

Dichiaro qui, in prima persona, assumendomi tutte le responsabilità morali e materiali della mia dichiarazione, che io vi ho messo tutta la mia buona volontà e che quando ho visto accettato l’essenziale, ho buttato in mare taluni dei dettagli che appartenevano all’accessorio. Aggiungo anche che difenderò con tutte le mie forze questo trattato di pace, il quale, a mio avviso, assurge all’importanza d’un avvenimento storico, anche per la sua singolarità senza precedenti; e che metterò in pratica un vecchio, saggio proverbio, che dice: «Chi non usa le verghe odia suo figlio».

Ora, se il fascismo è mio figlio — come è stato fin qui universalmente riconosciuto in migliaia di manifestazioni, che devo, fino a prova contraria, ritenere sincere — io, con le verghe della mia fede, del mio coraggio, della mia passione, o lo correggerò o gli renderò impossibile la vita.

È necessario, prima di passare ad altro ordine di considerazioni, rilevare che in questi ultimi tempi la coscienza nazionale aveva sempre più chiaramente manifestato il suo desiderio di pace. Le dimostrazioni dei mutilati a Napoli ed a Roma, col comizio Delcroix all’Augusteo, i voti dei reduci e delle madri dei caduti sono fatti «morali» che un movimento come il nostro non poteva ignorare, se è vero, come è vero, che intendiamo ricollegarci a Vittorio Veneto ed al significato di questo nome nella storia italiana.

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