Guido Pagliarino - Centro Storico - Porta Palazzo E Dintorni 1990
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Giorgio Bárberi Squarotti
Sull’opera “Spoon River” mi trovo d’accordo, sebbene la mia lettura del Lee Masters precedesse di quasi tre decenni la redazione di “Centro storico” e durante la stesura non l'avessi in evidenza; tuttavia, a cose fatte, non ecludo affatto che il mio inconscio l'avesse presente; quanto invece al Pavese di “Lavorare stanca”, con quei suoi versi che a me, amante del ritmo, pur senza contestarne affatto il valore, tutt’altro, mi suonano un po’ prosastici, penso che quel grande non c’entri, se non per la piemontesità, tanto come carattere di fondo, quanto per la comune, intenzionale traslazione in italiano, qua e là, di forme della lingua piemontese, ciò che però non è invenzione né sua né mia, ma prassi dell’ormai quasi scomparso popolo subalpino autoctono; peraltro, pare proprio che il “Lavorare stanca” pavesiano dovesse a sua volta a Edgar Lee Masters.
Inserisco in appendice al poema la prefazione di Sergio Notario alla prima edizione dell’opera, presentazione che originava da una posizione metafisica e ideologica diversa dalla mia; tuttavia, la capacità e l'umanità del prefatore avevano saputo cogliere sufficientemente bene il mio sentire, nonostante alcuni punti in cui si notava la lontananza di Sergio dal Cristianesimo; ad esempio, laddove affermava che il credente sente tutto il bene da una parte e tutto il male dall'altra, non mostrava d'aver chiara la distinzione fra dolore e male e il fatto che il cristiano non è affatto manicheo ma, al contrario, sente il peccato agitarsi in lui, e si veda cosa ne dice Paolo nella lettera ai Romani, 7, versetti18 e seguente: “Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio”: per i cristiani è vero male solo il peccato, causa di dolore in ogni caso, mentre la sofferenza non sempre deriva dalla cattiva volontà di esseri umani, basti pensare a una malattia; ed è proprio qui che, a mio sentire, il Cristianesimo si distingue dalle altre religioni, col suo Dio ch’è uomo nel suo proprio Essere eterno e prova anche l’esperienza della vita materiale terrena entro la Storia (teologo medievale Duns Scoto 1) assoggettandosi dunque a soffrire e morire a causa dell’altrui libera scelta (potenti del Sinedrio e del Tempio), rispettando la libertà concessa da Dio stesso a ogni essere umano. A un certo punto della prefazione il Notario parlava del miracolo d’una conversione, ma il lettore non cerchi quei versi, infatti li ho eliminati: da tempo li avevo avvertiti dolciastri; costituivano il vecchio finale nel quale il personaggio di Vincenzo il razzista diveniva credente e buono; adesso il poema si chiude sulla stessa situazione dell’inizio, quella d’un Vincenzo maligno, come normalmente succede nonostante le preghiere altrui, perché Dio rispetta la libertà di coscienza donata a ciascun essere umano, e l’assassinio da lui non impedito di Gesù ne è caso lampante. Sono molto riconoscente a Sergio Notario, poeta oltre che critico, musicista e tant’altro ancora, che, non limitandosi a scrivere la prefazione, aveva continuato a seguire l'opera per diverso tempo dopo la stampa, con presentazioni e letture pubbliche.
G.P.
G uido Pagliarino
C ENTRO STORICO - PORTA PALAZZO E DINTORNI 1990
Racconto corale in versi
Vincenzo il razzista
Vincenzo una volta faceva le critiche ai napoli
e ladri puttane e assassini son tutti dei loro,
e appena ci parli ti cavano fuori il coltello,
e prima gli vengono mosci a implorare un lavoro
e quando li ha assunti, gli fanno tre mesi di mutua,
che dicono ai nostri «Torino è un paese di vacche»
e, invece, son loro che ciànno le donne più lasche,
appunto le chiudono in casa nei loro paesi,
e quando poi sono nel largo e hanno l'uomo distante,
lo fanno con tutti di sopra, di dietro e davanti.
Da quando suo figlio ha sposato una donna del Sud,
Vincenzo dei napoli dice né bene né male.
Fortuna che adesso a Torino ci sono i marocchi,
così nuovamente ha qualcuno cui fare le critiche.
Abdùl Satelèch
Abdùl Satelèch prega Dio su un tappeto verzino
che fu di suo padre e del padre del nonno del padre.
Da quando è venuto a Torino fuggendo dall'Africa,
il suo tappetino lo tiene ravvolto alla vita
e solo lo spiega a pregare rivolto alla Mecca.
Abdùl Satelèch sta su un'auto sul corso Valdocco
trovata relitta e stargata e vi mangia e vi dorme:
non vuole ammassarsi in soffitte affittate da cinici
a più di duecento migliaia di lire per mese,
tra gente che pecca sfidando la Legge, che spaccia
o fa le rapine alle donne e agli anziani indifesi.
Lui tira il carretto per conto di qualche ambulante
e fa le consegne dei fiori per Lucio il fioraio
– a volte, qualcuno lo chiama a portare dei mobili
e allora guadagna quel giorno tre volte di più – .
La sera lo vedono in tanti che stende il tappeto
tra gli alberi in mezzo alle àuto e si volge al Signore,
né più lui s'accorge di voci, di rombi, di clacson,
di gente che attorno lo guarda ridendo di lui.
Poi mangia da solo e la notte la passa sull'auto;
gli stracci e i giornali d'inverno gli bastano appena
e quasi congela, ma Abdùl chiede niente a nessuno.
Quest'uomo, di certo, è nel cuore dell'unico Dio.
Volevano fargli la pelle laggiù al suo paese
perché non taceva di fronte ai soprusi d'un capo;
ma pure a Torino c'è gente che vuole che muoia:
Omàr Salazìm gli ha proposto di vendere droga,
e lui gliel'ha detto che il male è nemico del Bene
e più non gli parli e gli resti voltato e distante.
Omàr l'ha giurato, che o cede o gli toglie la vita,
e ieri l'ha fatto picchiare da quattro dei suoi,
poi gli hanno bruciato davanti il tappeto verzino.
Non passa più molto che Abdùl lo ritrovano morto.
Lui pensa: «Alla fine ritorno nel grembo di Dio».
Rosario il condomino
Rosario negli anni '60 salì su a Torino
trovando un lavoro in un grande opificio moderno;
poi venne la crisi: fu preso e mandato a riposo
con una pensione da viverci un giorno su tre
perché anticipata – un accordo tra gran capitali,
polìtici e sìndacalìsti per togliere gli oneri
a quella grandissima impresa e girarli sul pubblico –.
Allora Rosario si fece il suo nuovo mestiere
ed ora trasporta le merci per terze persone
col suo furgoncino malconcio comprato d'incontro;
lavora da solo ma a volte, se il carico è greve,
richiede l'aiuto pagato d'un buon marocchino,
Abdùl Satelèch, diligente e di poche pretese.
La moglie s'arrangia a stirare per altre famiglie
e porta a Rosario, ogni mese, una cifra discreta.
Guadagnano pure le figlie, commessa e impiegata.
Convivono stretti in un vecchio palazzo vicino
a un grande mercato del centro in due piccole stanze
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