Ariston e Adone erano stati abbastanza sfortunati da essere presenti, quando Pan e Dioniso avevano creato accidentalmente quelle creature conosciute come satiri . La maledizione aveva colpito ogni maschio umano che avesse assistito allo scontro tra le due divinità. Dai loro crani erano spuntate delle corna e i loro piedi si erano trasformati in zoccoli fessi, lasciandoli tutti inorriditi e alterandogli la struttura complessiva delle gambe dal ginocchio in giù. Secondo la leggenda, i satiri , conosciuti anche come fauni, erano per metà uomini e per metà capre. Ma erano stati pienamente umani un tempo, malgrado il loro aspetto mutato. La paura, tuttavia, non si soffermava sui dettagli. Certo, il fatto che Pan fosse diventato celebre per saltar fuori dai cespugli e inseguire degli sventurati mortali attraverso i boschi nei momenti di irrequietudine – un’inclinazione fortunatamente non condivisa dai satiri dell’Arcadia e da pochissimi della Beozia – non aiutava.
Per qualche ragione, ai satiri che si erano trovati alle spalle di Dioniso al momento della maledizione erano cresciute lunghe corna rivolte verso l’alto. Dioniso, però, non pareva aver subito cambiamenti fisici. A Pan e a quelli che si erano trovati dietro di lui, invece, erano spuntate corna da ariete, che si arricciavano ai lati delle loro teste, con le estremità appuntite rivolte in avanti. Questi avevano seguito Pan in Arcadia; gli altri erano rimasti con Dioniso sul monte Citerone, in Beozia.
Sebbene né gli arcadici né i beoti avessero recato danno agli altri, essi rimanevano divisi da mutua sfiducia e disprezzo. Ad accrescere la distanza fra loro, il Fato aveva lasciato che Adone divenisse un satiro della Beozia. Ariston, benché grato di essere un arcadico, si era spesso pentito di non aver combattuto per portare il fratello con sé, prima di andarsene insieme a Pan. Non lo aveva più visto dopo quella notte.
Ariston scosse la testa per scacciare ogni pensiero sugli dèi e su Adone. Le rocce fecero rumore, colpendosi l’un l’altra, mentre rovistava nel mucchio. Trovandone una ancora più o meno integra, la sollevò e la strizzò. Non si sgretolò, sapeva di non essere abbastanza forte da frantumarla, nonostante lo stato di semi distruzione in cui versava la sua vecchia casa. Cos’era successo? Erano passati milleseicento novant’anni da quando era stato lì l’ultima volta e non aveva idea di cosa fosse accaduto durante la sua assenza. L’odore pungente di terra umida e muschio gli solleticò le narici e Ariston sospirò.
Il profumo di casa. Il profumo della perdita. La distruzione che ho causato alla mia famiglia.
Qualunque cosa fosse successa, la colpa era sua. Avrebbe dovuto ereditare quella terra e tramandarla ai propri figli.
Non saresti mai stato in grado di provvedere a una famiglia, non sei riuscito nemmeno a proteggere tuo fratello dagli dèi.
Non si sarebbe dovuto incolpare. La guerra aveva devastato quella zona per anni. Ateniesi, tebani, spartani, persiani… non c’era stato un solo momento in cui una battaglia non avesse avuto luogo sul suolo beotico. Ariston si chiese se Adone fosse mai tornato, o se avesse lasciato la Grecia da tempo. E se era tornato, era rimasto in quello stesso punto, bramando quel tempo in cui erano stati umani e non coinvolti nelle vite degli dèi?
Ariston fece scivolare la pietra nella borsa di pelle che portava al fianco. L’avrebbe tenuta come ricordo per il suo viaggio, perché sospettava che non sarebbe più tornato in quel luogo. Cosa avrebbero pensato di lui i suoi genitori se si fosse presentato alla porta come un satiro? Lo avrebbero accettato, come facevano con le storie più colorite sugli dèi o lo avrebbero fatto vivere all’aperto con le capre? Forse avrebbero persino tentato di ucciderlo. Un mostro non aveva alcuna utilità in una fattoria; avrebbe spaventato le pecore. E poi, i mostri come lui davano la caccia agli esseri umani – Ariston lo sapeva bene – e presto tutte le figlie dei vicini sarebbero state sue da prendere.
Guardò a destra, nel punto in cui sua madre soleva sedere vicino al fuoco per riparare i vestiti. Ariston si alzò e le immagini del passato si dissolsero nel presente. Senza mura, poteva vedere la distesa dei terreni circostanti. I campi, dove un tempo avevano pascolato le pecore, erano incolti e incurvati dall’assalto della pioggia. Là, oltre il paesaggio abbandonato, con il monte Elicona che incombeva in lontananza, poggiavano gli alberi fra cui Ariston era solito incontrare le sue amanti, invece che svolgere le faccende domestiche quotidiane. Pan lo aveva colto sul fatto una volta…
Non voleva pensare a Pan. Il dio aveva lasciato gli arcadici da soli, senza alcun rimorso, non appena aveva iniziato ad annoiarsi. Era tempo che Ariston facesse lo stesso. Eppure, qualcosa lo aveva attirato in quel luogo. Forse, per poter andare avanti, doveva prima lasciar andare completamente il passato. Forse il suo senso di colpa aveva bisogno di vedere, bisogno di confermare, che era rimasto davvero solo al mondo. Ritornare, tuttavia, non lo aveva consolato affatto. Macerie e terra e pioggia lo avevano accolto dove una volta c’era stato amore e una famiglia e calore umano. Questa non è più casa mia. Diede una pacca alla borsa in cui aveva posto la pietra del focolare in rovina. No, non aveva più una casa, ma era sempre uno stupido sentimentale.
Dei lampi tagliarono il cielo e un tuono rombò alle sue spalle, come se Zeus stesso volesse suggerirgli di andarsene. Ariston lo fece volentieri. Scese dalla collina e raggiunse il suo cavallo, legato a un albero con rami in grado di proteggerlo dal grosso dalla pioggia. Sentendolo arrivare, l’animale alzò la testa, ma subito dopo tornò a mangiare la sua appetitosa erba, ignorandolo, come se non lo reputasse degno della sua attenzione. Te e tutti gli altri, cavallo. Una volta venduto, al molo, forse avrebbe trovato il suo nuovo padrone più affascinante.
Dopo essersi tolto la borsa e averla messa al sicuro, insieme ai suoi effetti personali, nel piccolo sacchetto appeso alla sella, Ariston controllò di nuovo che la siringa fosse avvolta con cura nei vestiti di ricambio. Il flauto, creato da Pan unendo le canne palustri che avevano fatto da tomba alla ninfa Siringa, si era dimostrato troppo potente per poter rimanere nello stesso luogo troppo a lungo. Pan temeva che lui stesso sarebbe stato tentato di abusare della magia in esso contenuta. Parole importanti, dette dall’unico dio dell’Olimpo praticamente privo di brama di potere.
Quando Xanto gli aveva affidato lo strumento, qualche giorno prima, Ariston si era offerto di lasciare la Grecia. Se ne sarebbe andato in ogni caso, ma la siringa gli forniva una scusa. Come Pan, Ariston non aveva alcun desiderio di usarla. Quando la magia diventava necessaria, utilizzava il flauto che il dio aveva creato in un secondo momento, sul modello della siringa. Prima o poi, avrebbe dovuto rintracciare un altro arcadico, per evitare che la posizione dello strumento venisse scoperta. Finché la siringa fosse passata da una mano all’altra, infatti, localizzarla avrebbe rappresentato una sfida per chiunque ci avesse provato. Con il tempo sarebbe stata dimenticata, trasformandosi in una leggenda, e nessuno l’avrebbe più cercata. Fino ad allora, però, Ariston si sarebbe potuto lasciare alle spalle gli altri satiri e scacciarli dalla sua mente.
Slegò il cavallo, il cui morbido pelo marrone era reso nero come l’inchiostro dalla pioggia, e iniziò a camminargli al fianco. Ariston poteva cavalcare come qualsiasi uomo. Tuttavia, riusciva sempre a percepire la presenza fantasma degli zoccoli, sebbene fossero invisibili. Quando muoveva le dita dei piedi, a muoversi era solo l’illusione. Il suo zoccolo non era altro che un pesante e tozzo, beh… zoccolo. In ogni caso, camminare gli faceva bene. Gli consentiva di rimanere concentrato sul presente, invece che pensare al passato.
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