Guido Pagliarino - Il Cane

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Anno 1973, Torino: Il terrorismo di destra e di sinistra da anni imperversa in Italia e non farebbe di certo notizia che un uomo è stato morso da un cane, se non fosse che non soltanto ne è rimasto  orrendamente ucciso un noto eroe della Resistenza decorato con medaglia d’oro nonché uno dei più alti vertici dello strategico gruppo industriale Italiavolo: inviso ai neofascisti per la prima ragione, alle Brigate Rosse, delle quali suo figlio ventunenne fa parte, per la seconda. Come se non bastasse, la vita privata della vittima non è del tutto limpida . Infine il vice questore Vittorio D’Aiazzo troverà sì la soluzione, ma solo grazie a un’intuizione del suo amico Ranieri Velli, scrittore e giornalista di cronaca nera nel glorioso, plurisecolare foglio torinese Gazzetta del Popolo.
Anno 1973. Il fenomeno sociopolitico degenerativo del terrorismo, apparso in Italia verso la fine degli anni ‘60, è ormai entrato nella sua fase più tragica, gruppi armati di sinistra e di destra esercitano violenze in forme differenti ma tutte micidiali. Non farebbe di certo notizia, in tale atroce clima sociale, che un uomo è stato morso da un cane, se non fosse che non soltanto ne è rimasto orrendamente ucciso un noto eroe della Resistenza decorato con medaglia d’oro nonché uno dei più alti vertici dello strategico gruppo industriale Italiavolo: inviso ai neofascisti per la prima ragione, alle Brigate Rosse, delle quali suo figlio ventunenne fa parte, per la seconda. Le modalità della morte suggeriscono che quel cane sia stato addestrato appositamente per assassinarlo, per cui difficile è pensare senz’altro a una disgrazia, anche se la potentissima famiglia proprietaria dell’Italiavolo vorrebbe che così recitasse, il prima possibile, l’inchiesta del vice questore Vittorio D’Aiazzo, dirigente della sezione Omicidi della Questura torinese. Assassinio politico di fanatici di destra? Di estremisti di sinistra? Come se non bastassero le ambiguità, si scopre che la vita privata del morto non era del tutto limpida, come raccoglie e subito strombazza quella iena della stampa scandalistica: eccedendo, come fa notoriamente? Forse in questo caso no, dato che la stessa inchiesta di Polizia pare, a poco a poco, confermare l’esistenza di ombre, almeno per certi aspetti, nella vita privata dell’uomo. Alla fin fine però, nonostante le apparenze, non potrebbe essersi trattato solo e soltanto d’una deplorevole disgrazia? Vittorio D’Aiazzo troverà sì la soluzione, ma solo grazie a un’intuizione del suo amico Ranieri Velli, scrittore e giornalista di cronaca nera nel glorioso, plurisecolare foglio torinese Gazzetta del Popolo.

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M’era stato evidente perché il direttore m’avesse inserito in nera, pur provenendo io dalla pagina letteraria: aveva ovviamente giocato il mio essere stato poliziotto investigativo per anni e non doveva essere stata estranea alla scelta la citata agghiacciante disavventura, universalmente nota, che avevo sofferto nel 1969, risoltasi in lieto fine, ma con gravi ammaccature fisiche e morali, solo grazie all’intervento provvidenziale del mio unico vero amico ed ex superiore Vittorio D’Aiazzo, vicequestore comandante della Sezione Omicidi e Reati contro la persona della Questura torinese: una vicenda in cui una loschissima, potente figura aveva tramato contro l’Italia e gli Stati Uniti e, nello stesso tempo, contro di me, Ranieri Velli, usandomi quale motore involontario e capro espiatorio del suo disegno criminale. La vicenda era stata raccolta e divulgata dalla cronaca internazionale e aveva causato la mia fortuna di scrittore: ne avevo avuto notorietà e frutti economici grazie a un saggio che avevo scritto in tempo reale sulla vicenda, tradottomi nelle principali lingue occidentali e pubblicato vendendo quasi un milione di copie nel mondo; poi, lasciata da parte la giovanile poesia dalla quale avevo avuto i miei primi successi, ma ovviamente non guadagni, avevo sfruttato la fama raggiunta stendendo romanzi su alcune delle passate indagini di Vittorio D’Aiazzo e mie, libri che avevano venduto bene e dai quali erano state tratte le sceneggiature di alcuni film di successo 5.

N e l periodo storico in cui si svolge questa mia memoria i cronisti di nera s i trovavano sovente a scrivere di concerto co n redattori e commentatori politici, ché sin dalla fine del decennio precedente sanguinosi reati terroristici s’erano affiancati a i delitti privati .

Il terrorismo italiano era stat o un fenomeno sociopolitico involutivo, anche se accesosi entro un processo di maturazione della visione sociale nato verso gl’inizi del decennio e riguardante non solo il mondo aconfessionale, ma l’universo cattolico: gli anni f ra l’inizio del Concilio Ecumenico Vaticano II nel 1962 e l’anno 1970 avevano vie più responsabilizzato buona parte dei c redenti , f ra l’altro affinando il concetto evangelico che l’operaio ha diritto alla sua mercede : lo sciopero non era stato più considerato l’omissione d’un dovere ma un sacrosanto diritto. I conflitti col mondo imprenditoriale avevano dunque assunto una doppia colorazione sia n e lle menti dei lavoratori sia n e lle organizzazioni sindacali , le laiche e classiste CGIL e UIL, di cultura politica comunista, socialista e socialdemocratica, e la cattolica CISL che, nel difendere economicamente operai e impiegati, si basava su l valor e cristiano della persona, incommensurabile secondo la Chiesa p er la quale ogni essere umano è creat o a immagine e somiglianza di Dio. L e rivendicazioni e gli scioperi avevano accomunato classisti e umanisti. Anche l a degenerazione terroristica del malcontento sociale aveva riguardato entrambi i mondi e aveva co ntemplato casi di passaggio dal cattolicesimo al marxleninismo rivoluzionario armato , com’era avvenuto per Renato Curcio e la moglie Margherita Cagol fondatori, co l comunista Alberto Franceschini, del la più importante organizzazione di lotta armata di estrema sinistra , le Brigate Rosse, i quali non solo provenivano dal mondo cattolico ma, essendo ormai comunisti, s’erano sposati in chies a .

Comunque la quotidiana vita degl’italiani continuava nonostante il pandemonio terroristico ormai sfrenato e non mancavano eventi festosi come, 10 aprile 1973, l’inaugurazione del nuovo Teatro Regio di Torino. Per decenni nell’area di piazza Castello, sulla quale aveva risonato in passato, per due secoli, la gloria musicale dell’originale Teatro Regio edificato nel 1740, c’erano stati solo più i suoi ruderi, causa un incendio devastante divampato nella notte fra l’ 8 e il 9 febbraio 1936; ma finalmente, dopo anni di lavori, il teatro era risorto e la serata d’inaugurazione del nuovo Regio era ormai prossima. Sarebbe stata di gran gala, naturalmente, alla presenza del Presidente della Repubblica Giovanni Leone col suo seguito romano e delle più alte personalità e i primari dirigenti cittadini e regionali. In scena, l’allestimento sontuoso del melodramma verdiano “I vespri siciliani”, con la regia dei grandissimi cantanti Maria Callas e Giuseppe Di Stefano.

Sebbene l’avvenimento fosse da alta cronaca mondana e, apparentemente, non riguardasse noi della nera, il direttore aveva voluto che Ada e io fossimo tra i cronisti invitati “perché”, ci aveva detto, “c’è sempre il pericolo che i soliti gruppi di esaltati provochino uno dei loro scompigli davanti al teatro, o peggio. Se dovesse succedere, voi due di corsa 6in un bar a telefonarcelo per la finestrella di prima pagina, poi al volo qui per i vostri articoli in cronaca. Chiaro?”

Ada doveva essere in vena d’umorismo e, con voce soave, gli aveva risposto ritmicamente: “Siamo noi sempre pronti alla bisogna.”

Io, di tutt’altro umore, infastidito dalla possibilità di finirmene in mezzo alla violenza di squinternati volgar marxiani 7o, peggio, esploso da una vigliacca bomba neofascista, gli avevo solo restituito un rassegnato “Chiaro”. C ’erano davvero p ericoli di pesantissimi disordini e non nascondo che m’era stata più che bastante l’avventura nerissima del 1969 dalla quale avevo contratto, e mi rimarrà a vita, uno shock post traumatico per il quale, ancor oggi dopo tanto tempo, giunto ultrasettantenne nel terzo millennio, a volte il ricordo del dolore inflittomi mi rispunta improvviso in animo e m’invade la mente, quasi come se stessi subendo di nuovo quelle torture.

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