- Veramente pensavo di rientrare in hotel dopo il briefing di stamattina.
- Si ma anche in albergo dovrai pur mangiare?
Avrebbe voluto obiettare qualcosa ma il suo sorriso la spiazzò.
- Va bene.
- Grande! Allora appena finiamo ti porto a mangiare il miglior risotto alla milanese che tu abbia mai gustato.
- Mi porti da Bice?
- No da Betty
- Betty? È un nuovo locale?
- No è mia madre, milanese doc da generazioni e ti stupirà.
- Cosa? Mi porti a pranzo da tua madre?
- Certo! Tranquilla non le dirò che sei la mia fidanzata ma un medico geniale e lei capirà che stiamo insieme.
Dopo quella frase fece una fragorosa risata che fu contagiosa per Luisa. Era da tanto che non rideva, di solito abbozzava mezzo sorriso ma ridere era una cosa che non faceva da mesi e ora con quello sconosciuto un po’ bizzarro lo stava facendo.
Arrivati a destinazione si presentarono alla riunione che durò il tempo di tracciare le linee guida dei prossimi incontri.
Usciti dalla palazzina non c'era l’auto che li aveva condotti lì, Luisa si guardò intorno e Andrea l’afferrò per una mano e la condusse alla sua 500 rossa fiammante e insieme si diressero nella zona dei navigli dove viveva la sciura Elisabetta, Betty per tutti.
Una bella donna in carne, sulla sessantina con lo stesso sorriso aperto del figlio. Luisa non capiva come in poche ore dalla telefonata di Andrea, che l’avvertiva che avrebbe portato un’ospite a pranzo, la Betty avesse potuto preparare tutte quelle pietanze.
Com'era diversa da sua madre.
Non l’ aveva mai vista cucinare e non l’aveva mai vista ridere. A pensarci bene non l’aveva mai vista fuori da quella stanza nella quale aveva chiuso il suo mondo e dal quale aveva lasciato tutti fuori, lei compresa. Sua madre era mancata sette mesi prima. Alla fine l’infarto se l’era fatto venire. Luisa era scesa a Roma per tre giorni, alla stregua dei parenti lontani, aveva assistito al funerale, alla sepoltura e alla lettura del testamento.
Non aveva versato una lacrima, lei sua madre sentiva di averla persa tanti anni prima. Oltre ai gioielli, ai terreni, agli appartamenti e alla villa a Sabaudia, Luisa aveva ereditato il diario di sua madre e in quelle pagine aveva finalmente conosciuto Bianca De Nardo, aveva capito il perché di tanto dolore nella sua anima, e il perché di tanta freddezza nei suoi confronti.
Prima di sposare suo padre aveva avuto una relazione con l’autista della sua famiglia ed era rimasta incinta.
I suoi avevano fatto sparire il ragazzo e l’avevano costretta ad abortire. Bianca non aveva mai perdonato se stessa per non aver protetto quella creatura innocente che portava in grembo e aveva paura ad avvicinarsi a Luisa perché pensava di non essere una buona madre. Suo padre l’aveva conosciuta in una clinica in Svizzera, dove la famiglia l’aveva mandata per curare la sua fragile mente.
Giovanni Martinelli era lì per visitare un lontano parente e aveva perso la testa per quella donnina minuta e fragile, l’aveva fatta uscire dalla clinica, le aveva chiesto di sposarlo pur sapendo che lei non lo amava e l’aveva protetta fino all’ultimo. Solo dopo aver letto il diario di sua madre, Luisa pianse la perdita di quella madre che non aveva mai conosciuto. E pianse per suo padre, per quell’uomo che aveva scelto l’infelicità; come sarebbe stata diversa la sua vita se avesse scelto di vivere a colori e di non affogare nel grigiore di quell’amore impossibile.
Dopo pranzo Andrea si offrì di farle da Cicerone portandola a visitare la sua Milano, non quella turistica ma quella vera e genuina, lontana dagli happy hour e vicina alla gente.
La fioraia all’angolo dei navigli, il madonnaro nella piazza, l’ambulante di palloncini, la giostra per bambini.
E poi la mescolanza di razze e dialetti. Milano era questa e anche se la Lega la ostentava come simbolo della razza padana, quanti padani altri non erano che figli di immigrati siciliani, calabresi o campani. E oggi era il frutto di una globalizzazione maggiore.
Adesso i figli dei siciliani, dei calabresi o dei campani erano lombardi di seconda generazione e magari sposavano indiane, filippine o nigeriane.
C'erano cinesi con l’accento milanese e milanesi con l’accento pugliese. Milano era l’ ombelico del mondo. Lo stesso Andrea aveva sangue siciliano, suo padre era un tipografo palermitano immigrato con le valigie di cartone alla fine degli anni ‘70.
Luisa era affascinata dalla dialettica di Andrea.
Lo conosceva da poche ore ma sentiva di potersi fidare di lui e così quando gli chiese se per lei era un problema rivedere il dottor Di Pietro, se avessero avuto screzi sul lavoro, come un fiume in piena raccontò la sua storia.
6
Fin dall’inizio, dal loro primo incontro in Sierra Leone, alla mattina in cui uscì da casa sua col borsone beige e all’incontro con Sara.
Erano passati due giorni da quando Giorgio le aveva parlato quella mattina in cucina, due lunghissimi giorni in cui aveva fatto di tutto per evitare di incontrarlo.
Quella sera andò in ospedale a trovare Asmait ma non la trovò. Un sussulto al cuore, pensò al peggio, poi capì…
La bambina era stata dimessa e Giorgio e Sara l’avevano portata con loro in hotel.
Chiamò l’assistente sociale con cui ormai era entrata in confidenza e si fece dire il nome dell’hotel. Arrivò in cinque minuti, non aveva mai guidato così. Alla reception disse di voler parlare col dottor Di Pietro e pochi istanti dopo Giorgio era lì davanti a lei. Parlarono cercando di evitare di guardarsi negli occhi, lei voleva vedere Asmait, era l’unica persona con cui aveva legato dopo il risveglio e anche l’assistente sociale era d'accordo.
Giorgio non fece alcuna obiezione, anzi disse che anche secondo lui era un bene per tutti. Così salirono insieme al quarto piano suite 401.
Dietro la porta chiusa Luisa riconobbe il suono della voce di Asmait. Appena Giorgio aprì la porta e la bimba la vide, nonostante la vistosa fasciatura alla gamba le corse incontro. Si strinsero forte per un po’, poi Luisa reclinò la testa e la vide.
Era bellissima, indossava una tuta intera giallo ocra con un cinturone di cuoio uguale agli stivaletti di pelle, aveva vistosi gioielli con pietre viola, un viso angelico e i capelli raccolti nell’immancabile chignon. Era poggiata all’enorme specchio dove Luisa poteva vedere se stessa riflessa.
Com'era diversa da Sara, il giorno e la notte.
Accanto a quella donna bella e sofisticata, la sua immagine si perdeva.
I suoi capelli biondo cenere perennemente legati con una coda di cavallo, il maglioncino di filet azzurro, fatto a mano da Francesca per il suo compleanno, i jeans blu scoloriti e le scarpe da ginnastica. Il viso acqua e sapone senza un filo di trucco, con l’immancabile burro cacao alla pesca e gli occhiali quadrati sul naso, nessun gioiello, nessun vezzo, come poteva competere con lei, come poteva anche solo immaginare che Giorgio scegliesse lei.
Sara, con un passo sicuro che la spiazzò le si avvicinò, le sorrise e mise una mano davanti a lei dicendole che era felice di conoscerla.
Luisa la strinse confusa, dentro di sé si sentiva un verme, ma continuava a stringere la mano di quella donna per la quale non sapeva bene che sentimenti provare.
Mentre dava da mangiare ai piccioni, raccontava a quello sconosciuto pezzi della sua vita, seduta su quella panchina del parco, Luisa evitava di guardarlo negli occhi.
Era confusa non riusciva a smettere di raccontare, eppure non era da lei, non sapeva nulla di lui, fino a quella mattina Andrea Conti non sapeva neanche chi fosse.
Tuttavia parlare con quello sconosciuto la faceva sentire bene, le dava pace, come quando dopo la confessione il prete dava l’assoluzione, non temeva nessun giudizio, su quella panchina non era la dottoressa Martinelli, non era la figlia del rettore, non era la nipote del premier, era semplicemente Luisa, una donna terribilmente fragile che era cresciuta senza amore e che si era innamorata dell’uomo sbagliato.
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