Lettera ad un nipote ancora in viaggio
Caro Zorro,
ancora non ti conosco e sento già il bisogno di scriverti, di raccontarti in prima persona quello che un giorno sentirai da tuo padre. Ti confesso che la prima sensazione che ho provato alla notizia del tuo arrivo è stata di malinconia: ho pensato che non sarei stata nel tuo futuro, non ti avrei accompagnato che per un breve tratto, insomma, mi sono sentita vecchia.
Sarai un nipote d’oltremare, lontano fisicamente dalla mia vita e dai miei posti e forse non avrai la possibilità di conoscere bene questa nonna del continente: anche per questo ti scrivo.
Un giorno verrai in questa cascina antica, ti guarderai attorno spaesato: abituato alla tua luminosa casa di Sardegna dai muri bianchi e le finestre che scoppiano di luce, ti stupirà vedere l’ombra che invade la cucina anche in pieno giorno, le pareti polverose di cenere, le piccole ragnatele che si nascondono dietro i mobili o negli angoli.
Ti sarà strano sentire il silenzio, il fruscio del vento, il canto del gallo che irrompe nell’aria come lo scarabocchio d’una matita colorata.
E se verrai d’inverno, ti farà paura il buio ghiacciato delle notti, la sensazione del vuoto intorno alla casa, l’impressione inquietante di essere caduto nel fondo di un abisso. Fisserai un orizzonte non più lontano del vecchio gelso e tutt’intorno la neve coprirà le immagini che già ti sembravano familiari e ti saranno di nuovo ignote e misteriose nelle improvvise e monotone sequenze del bianco.
Io abito in questa casa, caro piccolo Zorro, sono la nonna di campagna, quella un po’ strana, che sta sola e non ha paura della solitudine.
Non so che mondo avrai e quanto potrai sentirtene parte: io, in un certo senso, mi sono barricata qui ma non sono una vecchia pazza. Ho solo tentato di preservare l’incanto, ma quello non posso lasciartelo, non è un bene che passa di padre in figlio.
Dovrai scoprirlo tu, sedendo nell’erba sotto la vecchia quercia, sentendo il cuculo che annuncia la pioggia, ascoltando d’estate il canto delle rane che sale dal Boiro.
Verrai qui e, seduto sulla panca sotto la veranda, vedrai nascere la luna dalle mura nere del castello e ti sembrerà di entrare in una delle favole che la mamma ti racconta la sera.
Guarderai tutto questo e capirai il sogno di questa nonna, la sua resistenza ad ogni mutamento, la sua volontà di mantenere in questo luogo l’incanto che gli appartiene. Allora capirai che è stato l’amore a creare la magia, a rendere unico ogni attimo di questo tempo e straordinaria la mia modestissima vita.
Ciao Zorro.
COMPLICE L’ESTATE
Sapevo che prima o poi sarebbe successo e ho temuto a lungo il momento in cui mio figlio mi avrebbe detto “Mamma, ti lascio Mattia”.
Non ho più la pazienza e la disponibilità per accudire un bambino e forse nemmeno più la forza fisica per inseguirlo nel suo vagabondare continuo ed incessante.
I piccoli sono curiosi, i nonni no: per questo mi sembrerebbe più giusto che cercassero risposte alle loro domande vitali da un’altra parte e si rivolgessero ai nonni a maturazione avvenuta, quindi molto tardi, meglio mai.
Comunque ormai è fatta, sono qui sotto il portico a spiare il sonno di Mattia, a preparare le parole per dirgli che staremo insieme per un po’, anche se, in cuor mio, spero che il rimpianto di avere lasciato il bambino diventi così forte da far tornare sui loro passi gli incauti genitori.
Ma i sogni muoiono all’alba, anzi, nel tardo pomeriggio, così il piccolo si sveglia, mi guarda, si informa tranquillamente su quanto dovrà restare e infine mi chiede la merenda.
Si scatena l’ansia: seguo scrupolosamente le istruzioni che Valentina mi ha lasciato ma mi prende la paura di sbagliare le dosi, di dargli veleno per topi invece di zucchero, di versare varechina pura nel bicchiere di plastica a fiorellini.
Il piccolo mangia con appetito, si pulisce la bocca col tovagliolo, è educato e quieto.
“Dove andiamo?” chiede e intinge il dito nelle gocce di latte cadute sul marmo del tavolo. Poi porta la tazza sul lavandino, insapona con cura le manine grassocce, le sciacqua, le insapona ancora: non capisco se è un gioco o una precoce forma maniacale.
“Dove andiamo?” ripete con calma.
Scendiamo con Harpo verso il Boiro, a tratti corriamo per la stradina sassosa.
“È tua l’acqua?” chiede.
Millanto crediti che non ho e rispondo di sì, o meglio, è della casa, del prato, del Boiro, anche sua se vuole; gli pare inconcepibile, se è così, non poterla portare a casa, in Sardegna, metterla lì sul poggiolo tra il vaso di ibisco e il gelsomino.
Qualche attimo di contrarietà, poi si concentra su una foglia di quercia che naviga leggera nella corrente, ecco, una foglia di olmo è la nave pirata, il nemico, il pericolo: a sassate ferma il suo andare, muta la rotta, la costringe in un’ansa asciutta.
La foglia di quercia è libera e scende al mare.
Nel buio
Un volo irregolare di cornacchie attraversa il prato già in ombra.
Dalla finestra osservo le sagome scure dei pini e il contorno delle colline che definisce il paesaggio.
Mattia dorme beato dopo una giornata avventurosa: il viso colorito, la bocca appena schiusa, gli occhi che cedono al sogno le immagini della giornata, ed io qui, alla finestra, a guardare la luce della luna che lentamente rischiara lo sfondo del cielo e disegna la linea nitida del castello e del piccolo borgo.
Davanti al pollaio due caprioli sono immobili nella luce: si muovono lenti, a tratti incrociano le piccole corna, fingono la lotta, si allontanano correndo in cerchio come in un ballo antico, sbilanciando all’indietro il corpo agile, consci della finzione, del gioco.
Sveglio Mattia, lo chiamo piano, gli stringo la mano: fa una smorfia, apre gli occhi, li richiude infastidito.
“Ci sono i caprioli, giocano sotto la luna!”.
Mi si attacca al collo, mi stringe, guarda verso la finestra: la luna fa brillare l’erba del prato, l’ombra scura del pollaio si stende sul terreno.
Gli occhi sbarrati, la bocca aperta, la fronte appoggiata sul vetro, Mattia guarda fuori, si volge verso di me, sorride emozionato nel lungo silenzio.
Stiamo così, vicini, immersi in questa luce lunare, unici testimoni dell’incanto.
Ora i due animali si rincorrono accanto allo steccato, le ombre scure attraversano l’erba, si allungano, scompaiono sul pendio erboso.
Sento le guance calde del bambino sul collo, il respiro regolare del sonno: ora sognerà di correre sul prato, di toccare il manto dei caprioli, di lasciare le sue piccole impronte nell’erba bagnata.
Domani non saprà più se è stato un sogno.
Alla roccia
Arranchiamo sulla salita che porta alla roccia.
Quando mio figlio era piccolo, salivo spesso con lui fino al pianoro di tufo dove i fossili di antichi animali marini spuntavano tra la polvere e le pietre.
Oggi i fossili non ci sono più e parte della roccia è crollata, ma da lassù si vede la casa, il prato e il Boiro che, come un nastro luminescente, segna i confini.
Mattia è veloce, si arrampica agile tra i cespugli di timo e ginepro, ogni tanto si volta, dubbioso delle mie capacità.
“Ci riesci, nonna?”.
“Guarda avanti e sta zitto per favore. Pensa a te!”.
Quel piccolo mostro presuntuoso cammina sulla mia terra da due giorni e si sente già padrone!
Sediamo sui gradini di tufo a guardare le galline, puntini bianchi e rossi nel verde dell’erba e le oche, pietre immobili nel cortile. Mattia tace finalmente, il sole gli arrossa le orecchie, sembrano di carta velina trasparente. Osservo la linea dolce della nuca, la lieve curva della fronte così familiare, così cara e sento la tenerezza che so di nutrire per lui.
Ora si alza e comincia a lanciare piccoli sassi nel vuoto sottostante; si sforza, si contorce, si avvita su sé stesso perché il lancio sia più efficace: per sicurezza lo tengo per la maglia, lui si volta, è contento, ride.
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