Mavi Pendibene - Complice l'estate

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Caro Zorro,
ancora non ti conosco e sento già il bisogno di scriverti, di raccontarti in prima persona quello che un giorno sentirai da tuo padre. Ti confesso che la prima sensazione che ho provato alla notizia del tuo arrivo è stata di malinconia: ho pensato che non sarei stata nel tuo futuro, non ti avrei accompagnato che per un breve tratto, insomma, mi sono sentita vecchia.
Sarai un nipote d'oltremare, lontano fisicamente dalla mia vita e dai miei posti e forse non avrai la possibilità di conoscere bene questa nonna del continente: anche per questo ti scrivo.
Un giorno verrai in questa cascina antica, ti guarderai attorno spaesato: abituato alla tua luminosa casa di Sardegna dai muri bianchi e le finestre che scoppiano di luce, ti stupirà vedere l'ombra che invade la cucina anche in pieno giorno, le pareti polverose di cenere, le piccole ragnatele che si nascondono dietro i mobili o negli angoli.
Ti sarà strano sentire il silenzio, il fruscio del vento, il canto del gallo che irrompe nell'aria come lo scarabocchio d'una matita colorata.
E se verrai d'inverno, ti farà paura il buio ghiacciato delle notti, la sensazione del vuoto intorno alla casa, l'impressione inquietante di essere caduto nel fondo di un abisso. Fisserai un orizzonte non più lontano del vecchio gelso e tutt'intorno la neve coprirà le immagini che già ti sembravano familiari e ti saranno di nuovo ignote e misteriose nelle improvvise e monotone sequenze del bianco.
Io abito in questa casa, caro piccolo Zorro, sono la nonna di campagna, quella un po' strana, che sta sola e non ha paura della solitudine.
Un romanzo dell'autrice italiana Mavi Pendibene, pubblicato da ProMosaik, insieme agli altri romanzi e racconti dell'autrice. Un approccio esistenziale alla letteratura. E soprattutto letteratura al femminile.

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Il volo delle cornacchie lo immobilizza, il loro grido improvviso fende l’aria: mi viene vicino, guardiamo insieme lo stormo nero che macchia il cielo, un’ombra scura come un pensiero improvviso, il silenzio tagliato in due dall’urlo acuto: attraversano lo spazio, poi planano verso la torre del castello e scompaiono nel grigio scuro delle mura.

“Non ti portano via, sta tranquillo, non sono mica aquile!”.

Cosa mi è venuto in mente di parlare di aquile!

Per tutto il tragitto si informa su dove sono i loro nidi, se qualche volta passano di qua e se portano via i bambini anche se le finestre sono chiuse e le luci accese.

Chiamo in aiuto Harpo. “Con lui vicino non può succederci niente”.

Entriamo in casa ad aspettare la sera.

Una lite

Mattia irrompe nel gruppetto delle galline agitando una vecchia scopa.

Ancora una volta mi chiedo perché sia così profonda nei bambini la necessità di tormentare il prossimo, qualunque esso sia.

“Possibile che tu non lasci quietare nessuno? Ti piacerebbe che ti prendessero a scopate? Prova un po’ a ragionare con quella testolina vuota, santo cielo!”.

Sono irritata, non sopporto che il gioco diventi una sofferenza per gli altri, esigo rispetto, anche per le galline!… Mi guarda, finge indifferenza ma so che è mortificato.

Mi chiedo se è così che si può insegnare l’amore per ciò che abbiamo attorno o se bisogna solo aspettare che tutto ciò di cui abbiamo goduto negli anni diventi parte di noi e quindi insostituibile, intoccabile.

Forse è così, ma il problema è che il mio tempo è ormai ridotto e vorrei accelerare il percorso. Quindi: “Non lasciare a tutti i costi la tua impronta su ciò che vedi e incontri, non è il caso di rincorrere le galline ma nemmeno di portarti via le pietre del fiume o, ancor peggio, i piccoli pesci che ti punzecchiano le dita quando sei in acqua, non modificare nulla, per favore, se non è strettamente necessario”.

Ora è offeso, sale in camera, fruga con attenzione nella sua valigia.

“Se pensi di scappare di casa, non fai nulla di originale. Tuo padre ci ha provato una volta. Aveva più o meno la tua età, non andava ancora a scuola. Lo avevo rimproverato, come ora ho fatto con te: lui ha preparato un sacchetto con tre scatole di pelati, mi ha salutato e si è avviato alla vecchia quercia. È rimasto seduto là almeno due ore, poi è rientrato e mi ha detto di aver cambiato idea ma solo perché aveva dimenticato l’apriscatole. Quindi, se vuoi andare, vedi di organizzarti meglio!”.

Gli occhi sgranati, completamente spiazzato, confuso dal racconto che vorrebbe conoscere nei particolari, mi guarda silenzioso, non sa cosa dire… finalmente.

Scendiamo in cucina, preparo una caraffa di acqua fresca e limone mentre comincia inesorabile il mulinello delle domande.

Alba

Il sole non è ancora spuntato.

Dalla finestrina del bagno guardo un cielo lungo e luminoso dietro le forme scure delle colline.

Dovunque silenzio, solo, a tratti, l’abbaio lontano di un cane cade sulla valle ancora in ombra.

Non so se svegliare Mattia e mostrargli quest’alba quieta che sembra irradiare pace ed annunciare una giornata serena.

L’onda di luce si srotola lentamente sui crinali, si irradia sui pendii scoscesi e poi, improvviso, rapido come una saetta, il sole appare ad inondare di luce la casa e il prato.

Troppo tardi per svegliarlo.

Resto alla finestra accecata dalla luce, grata di questo dono mattutino che dà inizio al mio giorno.

Baruffa

“Pioverà?”.

“Non so”.

“Se non piove andiamo al lago?”.

“Non so”.

“Se andiamo, mangiamo là?”.

“Non so”.

“Ma non sai nienteee!”.

“Esatto. Se tu invece vedi nel futuro, mettiti un turbante in testa e compra una sfera di cristallo!”.

Tace mortificato e dalla finestra scruta il cielo, le nuvole scure che attraversano la valle, la lieve nebbia calda che sale dall’erba.

“Che brutto posto! Piove sempre!”.

“Sarà meglio il tuo, senza stagioni!”.

“E tu sei vecchia, non hai mai voglia di far niente!”

“Vedremo te alla mia età!”.

“Ma se viene il sole mi porti al lago?”.

“No”.

“Perché?”.

“Perché oggi sarò morta. Prevedo di buttarmi dal tetto se continui a lamentarti e a fare domande: hai preso troppa confidenza, non mi piace!”.

Esce in silenzio, lo sento aprire il portone e poi parlare con Harpo.

Continuo a stirare nella penombra fresca della cucina, il gatto riposa finalmente sul trave del camino, un sottile raggio di sole illumina il vetro.

Ho nostalgia della mia solitudine, del vuoto attorno, del silenzio incantato della mia casa: aspetto l’inverno con i suoi cieli bui sul vetro gelato e i risvegli notturni ancora tiepidi di stufa.

L’abbaio di conferma di Harpo mi raggiunge in cucina. Stacco la spina ed esco nel sole di questa giornata d’agosto.

A proposito di noia…

I bambini si annoiano. Hanno perso la sapienza.

Noi l’avevamo, non come conoscenza, ma gusto, sapore delle cose: tutto era sapienza, tutto era piacere.

Ancora oggi ricordo le impressioni dell’infanzia, la felicità per ciò che scoprivo e diventava mio patrimonio intoccabile.

Andavamo alla valle di Giuan in fila indiana, rasentando bassi muretti di mattoni, percorrendo un sentiero sterrato tutto mirti e fichi d’India.

A sinistra il pendio erto della collina, a destra l’ampio specchio del golfo, tutto insenature e scogli scuri sulla quieta superficie dell’acqua.

Ricordo i colori, il blu azzurro delle onde, il grigio delle rocce con i bagliori improvvisi dei cristalli di mica, il verde intenso dell’erba e quello argenteo degli ulivi.

Racchiusi nella stessa sfera trasparente erano il profumo dolce del glicine e quello acidulo della melissa, l’odore aspro della salsedine e quello fungino del muschio che ricopriva il terreno alla base dei muretti.

Lo stridio delle rondini graffiava il cielo del mattino, il canto dei passeri rivelava piccoli nidi tra gli alberi.

Mio fratello guidava la fila, in mano la paletta e il secchiello, saltellando a tratti tra le pietre sconnesse: è una bella visione, è contento, sorride quieto con quello sguardo che non si illumina, pronto ad accettare la vita come un dovere, una calamità.

Ho poche immagini di lui nella memoria, come se fosse scivolato via dai ricordi, ma questa è viva: cammina e saltella, ogni tanto si volta per vedere se ci siamo, inciampa nei sandaletti blu.

Mia madre chiudeva la fila, il vestito bianco a piccoli fiori, gli zoccoli di legno, la borsa con gli asciugamani.

Alla fine del sentiero c’era una discesa di sassi e, in fondo, un arco di pietra da cui si accedeva alla spiaggetta: seduta su un trono di scogli, il mare davanti, l’onda che lambiva appena i miei piedi, provavo una sensazione di ebbrezza, una pienezza di emozioni così intensa da rendere chiara e concreta la percezione della felicità.

Non ho memoria di me, non so come ero e cosa facevo: ricordo solo l’impressione di assorbire ogni sensazione possibile, come se tutta quella felicità avesse potuto un giorno difendermi dalla vita.

Una favola

Se è possibile valutare la bellezza delle galline, direi che le mie sono davvero splendide.

Alcune sono bianche, con il capo e il collo grigio perla, la cresta rossa, il becco giallo arancio, altre focate, rosso il corpo e il collo nero lucido, magnifiche!

E poi il gallo, bianco come una nuvola, maestoso nel fuoco della cresta e dei bargigli.

- Specchio Specchio delle mie brame, chi ha le galline più belle del reame?

Non so se è normale esserne orgogliosi ma io lo sono, come della veneranda età delle mie oche, del peso spropositato del mio cane, dell’astuzia dei miei gatti.

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