A.J. Mitar - Specie Dominante

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In un futuro senza l’Uomo…  qualcun altro si contenderà il dominio della Terra...
In un futuro senza l’Uomo…  qualcun altro si contenderà il dominio della Terra. Una guerra combattuta con ogni mezzo, con gli artigli e le armi più sofisticate.  Il mistero della genesi di nuova una specie riaccenderà l’interesse sull’antico popolo dei Terrestri. Quali saranno le inquietanti scoperte? La risoluzione del mistero deciderà le sorti del conflitto?

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SPECIE DOMINANTE

A.J. Mitar

Publisher: Tektime

Contents

Titolo SPECIE DOMINANTE A.J. Mitar Publisher: Tektime

Testo

Urla struggenti vibrarono alle mie spalle, mi voltai di scatto.

Il principe degli inferi in persona si era avvinghiato sul capomilizia Sindabe, mentre gli artigli possenti ne smembravano le carni.

Un… un te-terra… Fui scosso da un tremito incontrollabile.

Incrociai per un attimo occhi rabbiosi, risplendenti di bagliori infernali. Avevano un aspetto vagamente familiare.

Il vento spazzava la terra ammantata, e l’aria si era armata di gelide lame che s’insinuavano sotto la mia uniforme.

Per istinto sfoderai l’arma per puntarla contro quell’essere cianotico. Le mie mani tremavano, forse per il peso del fucile a energia, o forse per il grande freddo; ma non c’era più tempo, le urla erano già cessate, insieme alla vita del povero Sindabe.

Rapido, l’alieno si scagliò contro la preda successiva, il milite Razhio, intervenuto in difesa del suo superiore. Stesse modalità: gli artigli robusti penetravano nelle membra senza sforzo. Il sangue zampillante imbrattava quel demone. La mano artigliata stringeva il cuore di Razhio, mentre palpitante veniva strappato dall’addome. Una violenza bestiale continuò ad accanirsi sul corpo, fino a quando cadde l’oscurità.

La mia arma reagì alla pressione sul grilletto; la bocca di fuoco irradiò all’impazzata, ma nessun colpo andò a segno. L’alieno si era proiettato nella buia vegetazione.

Rischio di colpire i miei miliziani. Desistetti.

Uno stridio persistente si propagò riflettendosi come un brivido sulla mia pelle; un urlo diabolico di sfida che echeggiò e riecheggiò nella vallata. Quella creatura era là fuori, da qualche parte.

«Disperdetevi nella boscaglia!» gridai.

Conoscevo gli effetti di un’aggressione di quegli esseri, la morte violenta, i corpi dilaniati. Non potevamo competere in un corpo a corpo, a causa della differenza della VFV (velocità del flusso vitale). Potevano muoversi veloci come meteore lanciate verso il Sole, in un ciclo cardiaco riuscivano ad avanzare per cento passi.

Folate d’aria cariche del loro tanfo ed echi di grida belluine testimoniavano la loro presenza. Per il resto, mille sibili distanti, suoni perforanti e tetri.

Un’intera orda assetata di sangue ci sta dando la caccia, pensai, mentre mi sforzavo d’individuare le fonti di quei suoni. Ma il bio-scanner rivelò che erano solo in tre.

Lo spirito del mio illustre antenato, il Magnifico Shkelq, insorse dall’oltretomba perché mi rifugiai in una torretta per il monitoraggio ambientale, a venti passi; speravo che la solida struttura legnosa fosse impenetrabile per i loro artigli.

Al riparo di una sicura postazione, potrei sfruttare la tecnologia di puntamento del fucile, mi giustificai.

Mi appostai in attesa di far fuoco, ma le braccia intorpidite sfuggivano al mio controllo. Mi dominava la paura di essere scoperto, non osavo respirare. Il buio del nascondiglio era il mio unico conforto.

La luna percorreva il suo cammino prestabilito illuminando i sentieri periferici di Leevanie; la visibilità era buona, mi illusi che potevo centrare il mio bersaglio.

Dannazione, come colpire qualcosa più veloce dei miei riflessi? Impotente, dovevo accontentarmi di seguire le rosse scie sul visore bracciale, osservabili per tutto il tempo che il nemico restava in superficie.

La poca esperienza ci insegnava che l’unico modo per stanarli era quello di usare armi esplodenti, così dirompenti da rendere inutile la grande rapidità.

Maledizione… la rete bio-elettrochimica, ripensai a tutti gli sforzi per bilanciare il ciclo dei batteri e degli agenti bio-elettrochimici del sottosuolo e del sottobosco, Leevanie potrebbe rimanere senza energia per mesi.

Le case sparse si mimetizzavano tra la vegetazione. A rivelare la loro presenza vi era solo la discreta luminescenza che trapelava dagli oblò.

Se manteniamo bassi i livelli di fuoco… il rischio di colpire le abitazioni è trascurabile. Stimai che almeno quelle erano abbastanza lontane per agire in sicurezza.

Mi attanagliava il dubbio.

Per qualche istante udii solo i brusii della boscaglia; l’imboscata sembrava terminata, ma il primo-aiutante Kuzho gridò:

«Attenzione… mettetevi al riparo, stanno tornando!»

Anche il mio visore visualizzò tre tracce in rapido avvicinamento.

All’improvviso, rumori e grida ripresero a imperversare tutt’intorno, portati dal vento. La battaglia si rinvigorì.

La tecnologia del mio impianto oculare mi dava ausilio per ampliare il campo visivo, per l’osservazione alle lunghe distanza, o per distinguere un obiettivo in notturno.

Devo stare attento a cogliere il minimo indizio di movimento. I miei occhi si contrassero, i miei arti superiori serrarono il fucile. Avevo bisogno di tempo per agganciare un bersaglio mobile al sistema di puntamento dell’arma.

Ma colsi solo i miei miliziani che cercavano la fuga sfruttando l’istinto e le propensioni arboricole. Scene raccapriccianti di corpi che si piegavano sotto i fendenti del nemico, smembrati come fossero di molle consistenza.

Si sovrapponevano le urla atroci dei caduti e gli alert sonori d’abbattimento dei parametri vitali; la sordità sarebbe stata una consolazione.

In quel breve lasso di tempo morirono venti su trentacinque miliziani. I segni della battaglia erano ben tangibili, l’aria era satura di umori biologici, la neve si era tinta di morte.

Non posso restare qui mentre ci fanno a pezzi, mi scervellai.

Osservai il visore sul mio braccio. Scorrevano sovrabbondanti informazioni che mi giungevano dai innumerevoli sensori. Mi resi conto della disposizione dei sopravvissuti: il coadiuvante Notay si trovava nella mia stessa costruzione, il sergente Kuzho sulla cima di un’aghifoglie. Gli altri erano tutti sparpagliati nel raggio di cento passi; tutti acquattati nella ricca vegetazione.

«Selettore su razzi» sussurrai al mio comunicatore, «programmare il bersaglio e una sola tornata; fate fuoco appena potete.»

Tutti i miliziani ubbidirono all’ordine. I razzi sparati in aria si frammentarono e, ricadendo al suolo, si sparpagliarono in diverse direzioni alla ricerca della traccia-genetica-bersaglio.

Temevo che le deflagrazioni sparse mettessero in pericolo la nostra stessa incolumità.

I fragori di diverse esplosioni si accavallarono. Poi, lo scricchiolio delle fibre legnose di un maestoso sempreverde rimbombò nella vallata. L’ombra della pianta mi coprì mentre si abbatteva al suolo alle mie spalle; un grande tonfo mi fece sobbalzare, ma per fortuna non fui travolto.

Due terranei erano spariti dal visore, avevano fatto in tempo a rituffarsi nella neve e nel terreno granuloso; quasi nuotassero in un fluido, si erano immersi nelle profondità del sottosuolo.

Ma un puntino luminoso lampeggiava immobile, localizzato nella stessa posizione da troppo tempo.

Colpito! Esultai.

Lo intravidi alle date coordinate. Era stato investito proprio dal robusto tronco stramazzato al suolo.

Un rapido zoom per osservare quel nemico a terra. Del liquido rosso vivido usciva copioso dalla sua cavità orale.

Ma ancora, i terranei schizzarono fuori dal manto nevoso. Erano solo in due, ma non demordevano.

Avendo tempo di studiare le strategie degli assalitori, appresi che agivano sempre nel medesimo modo: dilaniavano le loro prede per poi sotterrarsi appena possibile, dopo dieci passi al massimo (stimai).

Evidenti le loro capacità di esseri scavatori, ma la velocità con cui si sotterravano presupponeva una rete di gallerie preesistente.

Non c’era altra scelta; per sperare di colpirli era necessario continuare con le armi esplodenti.

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