Il cavaliere reggeva con la mano destra il gonfalone della Repubblica Jesina, rappresentante il leone rampante ornato dalla corona regale. Non appena il portone fu del tutto aperto, spronò il cavallo all’esterno, quasi travolgendo Lucia che era lì davanti. La ragazza, spaventata, si deconcentrò, e la sfera subito scomparve. Il cavallo, di fronte all’ostacolo imprevisto, si impennò, scalciando in aria con le zampe anteriori. Lucia sentì uno zoccolo a brevissima distanza dal suo viso, ma non si lasciò prendere dal panico e infisse il suo sguardo negli occhi azzurro mare del cavaliere, che aveva la visiera dell’elmo sollevata. Per un attimo si perse in quegli occhi, il cavallo si acquietò e il cavaliere ricambiò lo sguardo alla damigella, fissando a sua volta gli occhi nocciola della ragazza. Ci fu un momento di calma, di totale silenzio, l’incrocio dei due sguardi sembrava aver fermato il tempo.
Chi era quel bel cavaliere, pronto a un’ipotetica battaglia in difesa della propria città? Era forse Andrea? Se così fosse stato, avrebbe dovuto essere grata al suo malvagio zio! Ma forse il Franciolini aveva altri figli. Non ebbe il tempo di aprire bocca, perché dopo pochi istanti, le campane della chiesa di San Pietro iniziarono a suonare, e a esse via via si unirono quelle della chiesa di San Bernardo, poi quelle di San Benedetto, e infine quelle di San Floriano. Lanciando un ultimo sguardo a Lucia, il cavaliere spronò di nuovo il cavallo, raggiungendo la limitrofa Piazza del Palio, l’enorme spiazzo all’interno delle mura, dominato dal Torrione di Mezzogiorno. In breve, altri cavalieri in armi si strinsero attorno a colui che stringeva in mano il gonfalone, poi arrivò anche gente a piedi, armata di balestre, pugnali e qualsiasi altra arma potesse essere usata contro il nemico.
«Gli anconetani ci stanno attaccando!», gridò il nobile Franciolini. «Li hanno avvistati le nostre vedette dal Torrione del Montirozzo. Oggi, 30 Maggio 1517, ci prepariamo a difendere le mura della nostra città.»
Tutte le porte furono chiuse, la maggior parte degli uomini a piedi si dispose sugli spalti, mentre i cavalieri si assiepavano nel piazzale all’interno di Porta Valle, pronti alla sortita contro il nemico. Ma per quella notte, l’esercito anconetano, guidato dal Duca Berengario di Montacuto, non si avvicinò a Jesi, rimase accampato più a valle, a poche leghe dal centro abitato di Monsano, seminascosto nella boscaglia ripariale in prossimità del Fiume Esino.
Per alcuni giorni rimase l’allerta. All’imbrunire le scolte raggiungevano gli spalti, a rafforzare la guardia di solito demandata ad alcune vedette, e dalle mura risuonava il richiamo di un canto che da parecchi anni la popolazione non sentiva più:
«Squilla la tromba che già il giorno finì,
già del coprifuoco la canzone salì!
Su, scolte, alle torri guardie armate, olà,
Attente, in silenzio vigilate!»
Il Capitano del Popolo aveva imposto il coprifuoco alla cittadinanza. Alle nove di sera, chi non saliva sugli spalti delle mura, aveva l’obbligo di ritirarsi in casa. Ma la guardia era destinata ad abbassarsi presto. Per la sera del 3 Giugno era prevista la festa a Palazzo Baldeschi, in cui sarebbe stato annunciato il fidanzamento della nipote del Cardinale, Lucia, con il cadetto di casa Franciolini. In quei giorni, ogni volta che Lucia incrociava gli occhi di suo zio, anche se non era capace di leggere i suoi pensieri, nel suo volto vedeva disegnata una sola parola: “tradimento”. Ma non riusciva a capacitarsi quale interpretazione dare a quella parola, al contempo così semplice e così complessa.
Guglielmo dei Franciolini, Capitano del Popolo di Jesi, era un saggio amministratore, e sapeva bene che non era il caso di autorizzare una sontuosa festa proprio nei giorni in cui il nemico era alle porte della città. Ma non poteva andare contro il Cardinale, rinverdendo ancora una volta i dissapori tra autorità civili ed ecclesiali. Giusto pochi anni prima, il Palazzo del Governo era stato terminato e inaugurato con la benedizione dello stesso Papa Alessandro VI, che aveva concesso alla cittadinanza jesina di continuare a fregiare il leone con la corona regale, purché nella città e nel contado fosse osservata l’autorità ecclesiastica. Tanto che sulla facciata del palazzo si poteva leggere, al di sopra del simbolo della città, la scritta “Res Publica Aesina - Libertas ecclesiastica – MD”. E quindi il famigerato Papa Rodrigo Borgia aveva accordato una certa libertà alla Repubblica Jesina, purché si assoggettasse comunque al potere della Chiesa. Con quest’accordo, agli jesini furono anche risparmiati gli orrori perpetrati nel resto delle Marche dal figlio del Papa, Cesare Borgia, che si era proposto di diventare signore assoluto della Romagna, dell’Umbria e delle Marche con la ferocia e il tradimento. Era storia passata, di quasi vent’anni prima, ma comunque Guglielmo doveva rispettare i patti. Inoltre, era proprio il fidanzamento di suo figlio Andrea con la nipote del Cardinale a suggellare ancor di più l’accordo tra guelfi e ghibellini della sua città. In fin dei conti, il nemico era accampato da qualche giorno sulle rive del fiume, parecchio più a valle, e non accennava a muoversi. In quelle notti di coprifuoco, le vedette e le scolte non avevano notato movimenti; i fuochi di bivacco dell’accampamento erano ben visibili, quasi tenuti accesi a bella posta per tutta la notte dagli anconetani. Il timore, non infondato, di Guglielmo e di suo figlio Andrea, era che tutto ciò fosse un trucco. Forse i nemici aspettavano rinforzi per attaccare, o forse attiravano l’attenzione degli jesini su quel piccolo accampamento, mentre il grosso dell’esercito sarebbe apparso altrove. Il pomeriggio di giovedì 3 giugno era stato particolarmente caldo. Mentre Guglielmo si preparava per la cerimonia, aiutato da alcuni servi a indossare eleganti e colorati abiti di broccato, che contribuivano ad aumentare in maniera notevole la sua produzione di sudore, finiva di impartire ordini ai comandanti delle sue guardie.
«Dai vespri in poi tutte le porte della città devono essere chiuse. Predisponete anche delle catene nelle strade principali, in modo che, in caso di irruzione del nemico, venga ostacolato il suo procedere.»
Il luogotenente lo interruppe.
«Il Cardinale ha dato disposizioni opposte, mio Signore. Vuole che tutte le porte della città siano lasciate aperte, in modo che i nobili che risiedono nel contado abbiano facile accesso al centro abitato, per raggiungere il suo palazzo e la festa. Non possiamo contraddirlo.»
«Rafforzate la guardia alle mura!», gridò concitato il Capitano, battendo un pugno sul tavolo a sottolineare il suo ordine.
«Anche qui, ho i miei dubbi di poterlo fare. Il Cardinale, ai fini della sicurezza, vuole la maggior parte delle guardie armate schierate intorno al suo palazzo.»
«Il Cardinale, il Cardinale!» Guglielmo stava diventando paonazzo per l’ira e per il caldo. «Così rischiamo di consegnare la città al nemico! E sia, ma chiuderemo tutte le porte della città all’imbrunire. Lasceremo aperta solo Porta San Floriano, da dove i nobili ritardatari potranno raggiungere agevolmente Palazzo Baldeschi. Non abbiamo mai subito assalti dalla parte occidentale della città. Il nemico assale sempre da Valle, giungendo dalla piana dell’Esino. Sarebbe poco agevole per un esercito giungere dalla parte delle colline. Inoltre a occidente le mura sono parecchio alte e subito dentro Porta San Floriano abbiamo un fortino dotato di una bombarda, a ulteriore difesa. Preparate il mio destriero, e chiamate mio figlio. È ora di andare: sfileremo in corteo con i cavalli bardati per le vie del centro prima di giungere al Palazzo del Cardinale.»
Arrosti della più disparata varietà di selvaggina, zuppe, insalate e paste, già nel tardo pomeriggio erano state disposte sulla grande tavolata in cui avrebbero preso posto gli ospiti. Il Cardinale teneva Lucia per mano, mentre i servi spruzzavano gli arrosti, in particolare le gru, i pavoni e i cigni, di succo d’arancia e di acqua di rose, al fine di renderli più appetitosi. I filetti di manzo, una volta bolliti, venivano cosparsi di spezie e zucchero. Particolare attenzione era stata riservata ai contorni, verdure di tutti i tipi e di tutti i colori, che più che per essere mangiate, servivano ad allietare gli occhi dei commensali e stimolare l’appetito. Nelle zuppiere facevano mostra di sé minestre dei vari colori. Le zuppe, che di solito venivano servite come dessert, avevano un sapore dolce ed erano condite con zucchero, zafferano, semi di melograno ed erbe aromatiche. Il vero brodo, quello preparato facendo bollire una miscela di carni, verdure e spezie in acqua, era utilizzato come primo piatto, soprattutto nelle campagne e nei castelli della nobiltà contadina. Il brodo veniva bevuto mentre la carne, tolta dal brodo, veniva mangiata a parte e servita con erbe aromatiche. Il Cardinale aveva dato ordine ai cuochi di non servirne, mentre aveva fatto invece cucinare una novità, originaria della corte di Carlo VIII, i maccheroni, ottenuti dalla semola del grano modellata in forma di vermicelli e conditi in salse a base di olio d’oliva, burro e panna. In due tavoli a parte erano stati disposti i dolci, torte alle mele e pan di Spagna, e la frutta, mele, mele cotogne, castagne, noci e frutti di bosco. I vini nelle brocche erano quelli tipici del contado, Verdicchio e Malvasìa. Solo due brocche contenevano un vino rosso, pregiato dono fatto al Cardinale dal Granduca di Portonovo qualche anno prima. Nel tavolo dei dolci, invece, il vino era quello di visciola, proveniente dalle campagne di Morro d’Alba.
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