Anne Rice - Il ladro di corpi

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È la solitudine, la “maledizione” che si è impadronita di Lestat, affascinante e incontrastato principe del cupo universo dei vampiri. Sulla dolorosa, inarrestabile onda di quella solitudine, Lestat ha accarezzato un bruciante desiderio: rinascere come mortale, liberandosi del suo corpo di “non-morto” e impadronendosi invece di un corpo “vivo”, per dimenticare la sua condizione di tenebroso viaggiatore della notte e riprovare l’ebbrezza dei sensi umani, avvertire di nuovo sulla pelle il calore del sole, vivere il giorno in tutte le sue ore, non soltanto tra il crepuscolo e l’alba. E qualcuno, quel desiderio, può renderlo realtà, soddisfacendo così anche il proprio anelito a diventare vampiro, almeno per un breve periodo: l’ammaliante Raglan James, il Ladro di Corpi, che da tempo insegue Lestat lasciando dietro di sè tracce e indizi delle sue straordinarie ed enigmatiche capacità. Il Ladro di Corpi si rivelerà ben presto più sinistro e malvagio di qualsiasi demone e trascinerà Lestat in un viaggio interminabile, da New Orleans a Barbados, da Miami alla giungla amazzonica, costringendolo altresì a riscoprire ciò che aveva dimenticato da secoli: la sofferenza e l’angoscia insite nella natura umana…

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Riguardo alla sistemazione del suo patrimonio era andato tutto bene. Lui era David Talbot, giovane cugino dell’uomo più anziano, morto a Miami, e nuovo proprietario della dimora avita. Era stato il Talamasca a realizzare tutto ciò per lui, restituendogli la fortuna che lui aveva lasciato all’ordine e attribuendogli una generosa pensione. Non era più il loro Generale Superiore, anche se conservava i suoi appartamenti nella Casa Madre. Sarebbe rimasto per sempre sotto la loro ala protettrice.

Aveva un piccolo dono per me, sempre che io lo volessi. Era il medaglione con la miniatura di Claudia. Lo aveva trovato. Un ritratto delizioso. Una raffinata catena d’oro. Lo teneva con sé e me lo avrebbe spedito, se avessi voluto. Ma perché non andavo a trovarlo, per riceverlo io stesso dalle sue mani?

Barbados. Si era sentito obbligato a tornare sulla scena del delitto, per così dire. Il tempo era bello. Stava di nuovo leggendo il Faust, mi scrisse. Aveva tante domande da farmi. Quando prevedevo di arrivare?

Non aveva più visto né Dio né il Diavolo, sebbene, prima di lasciare l’Europa, avesse passato molto tempo in vari caffè di Parigi. E non aveva intenzione di trascorrere la sua vita alla ricerca di Dio o del Diavolo. «Tu sei l’unico a conoscere l’uomo che sono adesso», mi scrisse. «Mi manchi, voglio parlare con te. Non puoi ricordare che ti ho aiutato e perdonarmi tutto il resto?»

Si trovava in quella località sul mare che mi aveva descritto, con begli edifici intonacati di rosa, grandi distese di bungalow, dolci giardini profumati, spiagge pulite e uno scintillante mare traslucido.

Lo raggiunsi solo dopo essermi recato nei giardini sulla montagna, rimanendo su quelle stesse rupi che lui aveva visitato, guardando le montagne coperte di boschi e ascoltando il vento tra le palme da cocco.

Mi aveva parlato delle montagne? Mi aveva detto che, da lassù, si potevano osservare le valli dolci e profonde, e che i pendii lì accanto sembravano così vicini da dare l’impressione di poterli toccare, anche se erano tanto, tanto lontani?

Non credo, però aveva descritto bene i fiori: le orchidee e i gigli, sì, quei focosi gigli rossi dai delicati petali frementi, le felci annidate nel profondo delle radure, il cereo uccello del paradiso, gli alti e rigidi salici americani, e i piccoli boccioli dall’interno giallo della vite a campanula.

Avremmo dovuto passeggiare lì insieme, aveva detto.

Be’, lo avremmo fatto. Era dolce lo scricchiolio della ghiaia. E le grandi palme da cocco ondeggianti non erano mai state così belle come su quei promontori.

Aspettai fino a dopo la mezzanotte prima di scendere verso la riva del mare. Il cortile era come me l’aveva descritto lui, pieno di azalee rosa, di grandi begonie, e di arbusti lucidi e scuri.

Dopo avere attraversato la sala da pranzo vuota e buia e la lunga veranda aperta, scesi sulla spiaggia. Mi allontanai nell’acqua bassa, così da poter guardare verso i bungalow con le loro verande coperte. Lo trovai subito.

Le porte affacciate sul piccolo patio erano aperte e la luce gialla si riversava sulla piccola porzione di terreno recintato e lastricato, con tavolo e sedie verniciati. Dentro, come su un palcoscenico illuminato, lui era seduto a una piccola scrivania, rivolto verso la notte e l’acqua, a battere i tasti di un piccolo computer portatile, col ticchettare della tastiera che si propagava nel silenzio, coprendo anche il mormorio delle onde che spumeggiavano, dolci e pigre.

Era nudo, fatta eccezione per un paio di pantaloncini bianchi da spiaggia. La sua pelle aveva un tono molto scuro, come se passasse le giornate a dormire al sole. Tra i capelli bruni brillavano alcune strisce più chiare. Dalle spalle nude e dal torace glabro traspariva una certa luminosità, e i muscoli risultavano molto tonici. Un leggero riflesso dorato saliva dal basso sulle cosce, sulle gambe e sui ciuffetti di pelo sul dorso delle mani.

Non avevo nemmeno notato quei peli quand’ero vivo. O forse non mi erano piaciuti. Non lo sapevo, in realtà. In quel momento, non mi dispiacevano. Come non mi dispiaceva il fatto che lui sembrasse un po’ più snello di quanto non fossi stato io in quella struttura. Sì, tutte le ossa del corpo erano più visibili, suppongo in accordo con qualche moderno stile di vita secondo il quale, per essere alla moda, bisogna essere denutriti. Gli donava. Donava a quel corpo. Suppongo che donasse a entrambi.

La stanza alle sue spalle appariva molto ordinata e rustica nello stile delle isole, col suo soffitto a travi e il pavimento di piastrelle rosa. Il letto era coperto da un tessuto in un allegro tono pastello, stampato a motivi geometrici indiani. L’armadio e i cassettoni erano bianchi e decorati di fiori dipinti a colori vivaci. Le numerose e semplici lampade diffondevano luce a profusione.

Tuttavia non potei fare a meno di sorridere, all’idea che, in mezzo a tutto quel lusso, lui se ne stesse seduto a digitare sulla tastiera: David lo studioso, con gli occhi scuri che danzavano, mentre le idee turbinavano nella sua testa.

Avvicinandomi, notai che era molto ben rasato. Le sue unghie erano state tagliate e curate, forse da una manicure. I capelli, folti e ondulati, erano acconciati nello stesso modo che io avevo disinvoltamente adottato quando mi ero trovato in quel corpo, ma erano stati anche tagliati e, complessivamente, la pettinatura risultava più gradevole. Vicino a lui giaceva, aperta, la copia del Faust, con una penna appoggiata sopra; molte pagine erano piegate o segnate da piccole mollette d’argento, che fungevano da segnalibro.

Me la stavo prendendo comoda con quell’ispezione, notando la bottiglia di scotch, il bicchiere di cristallo dal fondo spesso e il pacchetto di sigarilli, quando lui alzò lo sguardo e mi vide.

Mi trovò sulla spiaggia, al di qua della piccola veranda col basso parapetto di cemento, eppure ben visibile alla luce.

«Lestat», mormorò. Il suo volto s’illuminò in modo magnifico. Si alzò e venne verso di me con la sua familiare andatura a lunghi passi aggraziati. «Grazie a Dio sei venuto.»

«Credi?» dissi. Tornai con la memoria a quel momento, a New Orleans, in cui avevo visto il Ladro di Corpi sgattaiolare fuori del Café du Monde. Pensai che quel corpo poteva muoversi come quello di una pantera… con un altro essere all’interno.

Voleva abbracciarmi, ma io m’irrigidii, allontanandomi un poco. Allora rimase immobile, e incrociò le braccia sul petto: un gesto che sembrava appartenere interamente a quel corpo, dal momento che non ricordavo di averglielo visto fare prima che c’incontrassimo a Miami. Quelle braccia erano più pesanti delle sue vecchie, e anche il petto appariva più ampio.

Che bel colore rosa intenso avevano i capezzoli. E com’erano fieri e limpidi i suoi occhi.

«Mi sei mancato», disse.

«Davvero? Non avrai certo vissuto come un recluso, qui, no?»

«No, ho frequentato fin troppa gente, credo. Troppe cene a Bridgetown. E il mio amico Aaron è andato e venuto diverse volte. Sono venuti qui anche altri membri.» Fece una pausa, poi riprese: «Non sopporto di averli intorno, Lestat. Non riesco a tollerare di rimanere a Villa Talbot in mezzo ai servitori, a fingere di essere un cugino del vecchio me stesso. Ciò che è successo ha qualcosa di spaventoso. A volte non riesco a guardare lo specchio. Ma non voglio parlare di questo».

«Perché no?»

«Sono in un periodo di assestamento. I turbamenti che avverto col tempo passeranno. Ho tanto da fare. Oh, sono così felice che tu sia venuto. Me lo sentivo. Stavo per partire per Rio stamattina, ma avevo la netta sensazione che ti avrei visto stanotte.»

«Ah, sì?»

«Cosa c’è? Perché hai la faccia scura? Perché sei arrabbiato?»

«Non lo so. Di questi tempi non ho bisogno di un vero motivo per essere arrabbiato. Dovrei essere felice. Lo sarò presto. Succede sempre e, dopotutto, questa è una notte importante.»

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