Anne Rice - La regina dei dannati

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I vampiri non sono solo gli esseri tenebrosi e agghiaccianti che ci ha sempre mostrato la letteratira nord-europea. Per Anne Rice, autrice delle “Cronache dei vampiri”, possono avere il volto seducente e sensuale del vampiro Lestat e vivere in un mondo voluttuosamente separato, incarnando una particolare mitologia: quella dei seduttori spregiudicati, fatali come dive, scatenati e decadenti al tempo stesso. Quasti vampiri nostri contemporanei ci faranno viaggiare dalla frenetica San Francisco ai remoti anfratti polari e alla tenebrosa Londra al seguito di Lestat, la ‘rock star’ che ha reso pubbliche le proprie conoscenze occulte utilizzandole come soggetti per canzoni che tanto affascinano la gente. Con Lestat, per di più, viaggeremo nel tempo: le sue canzoni raggiungono, per risvegliarli, la regina Akasha e il re Enkil, che da sessanta secoli vivono fuori della storia, già sovrani della valle del sacro Nilo e progenitori di tutti i vampiri. Scopriremo così, tra colpi di scena e improvvise quanto impreviste svolte narrative, la verità di sogni misteriosi e di mitici retaggi; saremo introdotti nei sotteranei degli investigatori dell’occulto e con loro scenderemo nelle viscere della terra ove vengono custoditi i segreti più inviolabili; come viaggiatori di una macchina del tempo, trasvoleremo la Parigi ottocentesca, con il suo Teatro dei Vampiri veri e finti, per incontrare le diverse incarnazioni dei vari personaggi. Arriveremo così allo scontro finale, al più incredibile contrasto fra Bene e Male, ma — beninteso — un ‘bene’ e un ‘male’ di forza vampiresca… Stia tranquillo il lettore: Lestat — protagonista, artefice e narratore di queste mirabolanti avventure — non sarà sopraffatto, anzi il suo operato riscatterà l’esistenza dei bevitori di sangue. Certo, dovrà giurare di comportarsi in futuro correttamente, secondo l’estetica degli uomini-pipistrello, e di lasciar perdere le seduzioni spettacolari e il piacere del successo. Lestat promette, ma…

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Daniel mi piaceva, Daniel che più tardi sarebbe venuto con me se glielo avessi chiesto, se mi fossi deciso a lasciare l’isola, come avevo fatto una sola volta da quando ero arrivato. Daniel che rideva ancora della scia tracciata sull’acqua dalla luna, e degli spruzzi tiepidi che gli piovevano sul volto. Per Daniel tutto, persino la morte di lei, era stato uno spettacolo. Ma non potevo dargli torto.

Pandora non si staccava quasi mai dallo schermo della televisione. Marius le aveva portato gli eleganti capi moderni che ora indossava: camicetta di raso, stivali al ginocchio, gonna di velluto aderente. Aveva messo braccialetti ai polsi e anelli alle dita, e ogni sera Marius le spazzolava i lunghi capelli bruni. A volte le portava in dono qualche profumo. Se non apriva lui le boccette, restavano intatte sul tavolo. Come Armand, anche Pandora guardava la successione interminabile di telefilm, e solo ogni tanto s’interrompeva per andare al piano nella sala da musica dove, in sordina suonava per un poco.

Mi piaceva il suo modo di esprimere la musica; erano variazioni che ricordavano l’Arte della Fuga. Ma mi preoccupava, mentre non mi preoccupavano gli altri. Tutti gli altri s’erano ripresi da quanto era accaduto, e molto più in fretta di quanto avessi immaginato. Lei era rimasta ferita, profondamente e prima che tutto incominciasse.

Eppure le piaceva stare lì, lo sapevo. Com’era possibile che non le piacesse? Anche se non ascoltava mai una parola di ciò che le diceva Marius.

Piaceva a tutti noi. Anche a Gabrielle.

Stanze bianche piene di splendidi tappeti persiani e di quadri affascinanti… Matisse, Monet, Picasso, Ciotto, Géricault. Si sarebbe potuto trascorrere un secolo solo guardandoli; Armand li cambiava di continuo, li spostava, portava su dalle cantine qualche nuovo tesoro o aggiungeva qualche disegno qua e là.

Anche a Jesse la villa era piaciuta molto, sebbene adesso se ne fosse andata per raggiungere Maharet a Rangoon.

Era entrata nel mio studio e mi aveva raccontato con molta franchezza la sua versione; mi aveva chiesto di cambiare i nomi che avevo usato e di escludere completamente il Talamasca; naturalmente io non volevo. Ero rimasto in silenzio mentre parlava, cercando di scoprire nella sua mente tutte le piccole cose che ometteva. Poi avevo passato tutto al computer mentre Jesse osservava e rifletteva e fissava le tende di velluto grigio e l’orologio veneziano e i colori freddi del Morandi appeso alla parete.

Credo sapesse che non avrei fatto quanto mi chiedeva. E sapeva che non aveva importanza. Difficilmente il pubblico avrebbe creduto al Talamasca più di quanto credesse in noi. A meno che, naturalmente, David Talbot o Aaron Lightner si fossero fatti avanti come Aaron aveva fatto con Jesse.

Per quanto riguardava la Grande Famiglia, era improbabile che per qualcuno di loro fosse qualcosa di più che un’invenzione, con un tocco di verità qua e là… ammesso che gli capitasse di trovarsi il libro fra le mani.

Era ciò che avevano pensato tutti i lettori di Intervista con il Vampiro e della mia autobiografia; e l’avrebbero pensato anche della Regina dei Dannati.

E così doveva essere. Anch’io sono d’accordo, ormai. Maharet aveva ragione. Non c’era spazio per noi, non c’era spazio per Dio e per il Diavolo: doveva essere una metafora, il sovrannaturale… sia la messa solenne nella cattedrale di St. Patrick, sia Faust che vende l’anima a Mefistofele in un’opera, o un divo del rock che finge d’essere il vampiro Lestat.

Nessuno sapeva dove Maharet avesse condotto Mekare. Probabilmente lo ignorava persino Eric, anche se era partito con loro e aveva promesso di attendere Jesse a Rangoon.

Prima di lasciare il complesso di Sonoma, Maharet mi aveva sconcertato con il suo sussurro: «Racconta tutto chiaramente quando narrerai la Leggenda delle gemelle».

Era un’autorizzazione, no? Oppure un’indifferenza cosmica: non so. Non avevo parlato con nessuno del libro; mi ero limitato a rimuginarvi nelle lunghe ore dolorose, quando in realtà non riuscivo a pensare se non in termini di capitoli, di un ordine da dare al mistero, una cronaca di seduzione e di sofferenza.

Maharet era apparsa molto terrena e tuttavia misteriosa quell’ultima sera. Era venuta a trovarmi nella foresta, tutta vestita di nero e con la sua «pittura alla moda», come la chiamava… l’abile maschera cosmetica che la trasformava in un’affascinante donna mortale, capace di muoversi solo tra sguardi di ammirazione nel mondo reale. Aveva la vita sottile e le mani affusolate, rese ancora più aggraziate dai guanti di capretto nero. S’era mossa con tanta leggerezza tra le felci e i virgulti, quando avrebbe potuto scostare gli alberi dal suo cammino.

Era stata a San Francisco con Jessica e Gabrielle. Erano passate fra le case dalle luci accese, sui marciapiedi stretti e puliti; dove viveva la gente, aveva detto. Aveva parlato con scioltezza e in termini contemporanei; non sembrava la donna fuori del tempo che avevo incontrato per la prima volta nella stanza in cima alla montagna.

«E perché sei di nuovo solo?» aveva chiesto mentre sedeva accanto a me in riva al ruscelletto che scorreva fra le sequoie. Perché non volevo parlare con gli altri? Sapevo come erano protettivi e spaventati?

Ancora adesso continuo a farmi le stesse domande.

Anche Gabrielle, che solitamente non parla molto. Vogliono sapere quando mi riprenderò, quando parlerò dell’accaduto, quando smetterò di scrivere tutta la notte.

Maharet aveva detto che l’avremmo rivista molto presto. In primavera, forse, avremmo dovuto andare nella sua casa in Birmania. O forse una sera ci avrebbe fatto una sorpresa. Ma il fatto era che non dovevamo essere mai isolati gli uni dagli altri; avevamo modi per trovarci, per quanto vagassimo lontani.

Sì, su questo punto fondamentale, almeno, tutti s’erano dichiarati d’accordo. Persino Gabrielle, la viaggiatrice solitaria.

Nessuno voleva più smarrirsi nel tempo.

E Mekare? L’avremmo rivista? Si sarebbe mai seduta con noi intorno a un tavolo? Ci avrebbe mai parlato nel suo linguaggio di gesti e di segni?

L’avevo veduta una sola volta dopo quella notte terribile. Era stato del tutto inaspettato, mentre attraversavo la foresta per tornare al complesso nella tenue luce violacea che precede l’aurora.

C’era una nebbia che si stendeva sul terreno e si diradava sopra le felci e i pochi fiori selvatici invernali, e sbiadiva nella fosforescenza mentre ascendeva tra gli alberi giganteschi.

E le gemelle erano uscite insieme dalla nebbia, s’erano avviate lungo il letto del ruscello tra le pietre, tenendosi abbracciate. Mekare indossava una lunga veste di lana, magnifica come quella della sorella, con i capelli ben spazzolati e lucenti, sciolti sulle spalle e sul seno. Mi sembrava che Maharet le parlasse sottovoce all’orecchio. Mekare si fermò a guardarmi con gli occhi verdi spalancati e il viso che per un momento sembrava impiegabilmente atterrito e vacuo; e io avevo sentito l’angoscia come un vento arroventato che soffiasse sul cuore.

Ero rimasto affascinato a guardarla, a guardarle entrambe; la sofferenza era soffocante, come se i miei polmoni si fossero inariditi.

Non so quali fossero i miei pensieri, ma il dolore era insopportabile. Maharet mi aveva rivolto un tenero cenno di saluto, come per indicarmi che dovevo andarmene. Stava per spuntare il mattino. La foresta si destava intorno a noi. I nostri momenti preziosi volavano via. La mia sofferenza s’era finalmente liberata, come un gemito che mi uscisse dalle labbra; e io l’avevo trattenuta, mentre mi voltavo per allontanarmi.

M’ero voltato indietro e avevo visto le due figure muoversi verso est, lungo il letto del ruscello argenteo, e sparire come se fossero inghiottite dalla musica rombante dell’acqua che seguiva implacabile il suo corso tra i sassi.

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