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Anne Rice: La regina dei dannati

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Anne Rice La regina dei dannati
  • Название:
    La regina dei dannati
  • Автор:
  • Издательство:
    Longanesi
  • Жанр:
  • Год:
    1990
  • Город:
    Milano
  • Язык:
    Итальянский
  • ISBN:
    978-88-304-0970-5
  • Рейтинг книги:
    4 / 5
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La regina dei dannati: краткое содержание, описание и аннотация

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I vampiri non sono solo gli esseri tenebrosi e agghiaccianti che ci ha sempre mostrato la letteratira nord-europea. Per Anne Rice, autrice delle “Cronache dei vampiri”, possono avere il volto seducente e sensuale del vampiro Lestat e vivere in un mondo voluttuosamente separato, incarnando una particolare mitologia: quella dei seduttori spregiudicati, fatali come dive, scatenati e decadenti al tempo stesso. Quasti vampiri nostri contemporanei ci faranno viaggiare dalla frenetica San Francisco ai remoti anfratti polari e alla tenebrosa Londra al seguito di Lestat, la ‘rock star’ che ha reso pubbliche le proprie conoscenze occulte utilizzandole come soggetti per canzoni che tanto affascinano la gente. Con Lestat, per di più, viaggeremo nel tempo: le sue canzoni raggiungono, per risvegliarli, la regina Akasha e il re Enkil, che da sessanta secoli vivono fuori della storia, già sovrani della valle del sacro Nilo e progenitori di tutti i vampiri. Scopriremo così, tra colpi di scena e improvvise quanto impreviste svolte narrative, la verità di sogni misteriosi e di mitici retaggi; saremo introdotti nei sotteranei degli investigatori dell’occulto e con loro scenderemo nelle viscere della terra ove vengono custoditi i segreti più inviolabili; come viaggiatori di una macchina del tempo, trasvoleremo la Parigi ottocentesca, con il suo Teatro dei Vampiri veri e finti, per incontrare le diverse incarnazioni dei vari personaggi. Arriveremo così allo scontro finale, al più incredibile contrasto fra Bene e Male, ma — beninteso — un ‘bene’ e un ‘male’ di forza vampiresca… Stia tranquillo il lettore: Lestat — protagonista, artefice e narratore di queste mirabolanti avventure — non sarà sopraffatto, anzi il suo operato riscatterà l’esistenza dei bevitori di sangue. Certo, dovrà giurare di comportarsi in futuro correttamente, secondo l’estetica degli uomini-pipistrello, e di lasciar perdere le seduzioni spettacolari e il piacere del successo. Lestat promette, ma…

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La vecchia immagine del sogno era un po’ sbiadita. E quando ora penso a loro, non penso più ai banchetti funebri, ma a quel momento, le due silfidi nella foresta, poche notti prima che Maharet lasciasse il complesso di Sonoma e portasse con sé Mekare.

Mi rallegrai quando se ne andarono perché significava che ce ne saremo andati anche noi. E non mi sarebbe dispiaciuto se non avessi mai più visto il complesso di Sonoma. Il mio soggiorno era stato un tormento, anche se le prime notti dopo la catastrofe erano state le peggiori.

Rapidamente il silenzio straziato degli altri aveva lasciato il posto ad analisi interminabili, mentre si sforzavano d’interpretare ciò che avevano visto e provato. Com’era stata trasferita esattamente la «cosa»? Aveva abbandonato i tessuti cerebrali quando s’erano disintegrati, ed era corsa nel sangue di Mekare fino a che aveva trovato in lei l’organo corrispondente? E il cuore? Aveva avuto qualche importanza?

Molecolare; nucleonica; protoplasma: scintillanti parole moderne. Suvvia, noi siamo vampiri. Ci nutriamo del sangue dei vivi; uccidiamo; e ci piace. Indipendentemente dal fatto che ne abbiamo necessità o no.

Non sopportavo ascoltarli; non sopportavo la loro curiosità silenziosa e ossessiva: com’era, stare con lei? Che cosa hai provato in quelle poche notti? Non potevo neppure lasciarli; non avevo la forza di volontà che mi sarebbe servita per andare via. Tremavo quand’ero con loro, tremavo quand’ero solo.

La foresta non era abbastanza profonda per me; vagavo per chilometri e chilometri fra le sequoie gigantesche, e poi fra le querce e i campi aperti, e poi di nuovo nei boschi umidi e intransitabili. Era impossibile sottrarmi alle loro voci: Louis confessava che aveva perduto conoscenza durante quei momenti spaventosi; Daniel diceva che aveva udito le nostre voci ma non aveva visto nulla; Jesse, fra le braccia di Khayman, aveva assistito a tutto.

Quante volte avevano discusso l’ironia del fatto che Mekare avesse abbattuto la nemica con un gesto umano; che, senza saper nulla dei poteri invisibili, avesse colpito come avrebbe fatto un umano, ma con una sveltezza e una forza disumane.

Qualcosa di lei era sopravvissuto in Mekare? Continuavo a domandarmelo. Senza pensare alla «poesia della scienza», come l’aveva chiamata Maharet: era ciò che volevo sapere. Oppure finalmente la sua anima s’era liberata quando il cervello era stato strappato via?

A volte nell’oscurità, nella cantina dalle pareti di lamiera e le innumerevoli stanze impersonali, mi svegliavo con la certezza che lei mi fosse accanto, a un paio di centimetri da me; sentivo di nuovo il contatto dei suoi capelli, vedevo lo scintillare nero dei suoi occhi. Brancolavo nell’oscurità e non trovavo altro che gli umidi muri di mattoni.

Allora restavo immobile e pensavo alla povera, piccola Baby Jenks come lei me l’aveva mostrata, mentre ascendeva verso il cielo; vedevo le luci multicolori che avvolgevano Baby Jenks mentre guardava la terra per l’ultima volta. Com’era possibile che Baby Jenks, la povera ragazzina motociclista, avesse inventato una simile visione? Forse è vero che alla fine andiamo tutti a casa.

Come possiamo saperlo?

Perciò restiamo immortali e continuiamo ad aver paura; rimaniamo ancorati a ciò che possiamo controllare. Tutto ricomincia: la ruota gira, noi siamo i vampiri perché non ne esistono altri, e si forma la nuova congrega.

Come una carovana di zingari lasciammo il complesso di Sonoma con un corteo di lucide macchine nere che sfrecciavano a velocità pazzesca su strade immacolate nella notte americana. Durante quella lunga corsa mi dissero tutto, spontaneamente e a volte involontariamente, mentre conversavano tra loro. Tutto si componeva come un mosaico, tutto ciò che era accaduto prima. Anche mentre sonnecchiavo sul sedile di velluto blu, continuavo a udirli e a vedere ciò che avevano visto.

Via, verso le paludi della Florida meridionale, verso la grande, decadente Miami, parodia del paradiso e dell’inferno.

Mi chiusi immediatamente in questo piccolo appartamento arredato con gusto: divano, moquette, quadri dai colori pastello che riproducevano opere di Piero della Francesca; il computer sul tavolo; la musica di Vivaldi che usciva da minuscoli altoparlanti nascosti nelle pareti tappezzate. Una scala privata per raggiungere la cantina, dove la bara attendeva nella cripta rivestita d’acciaio: lacca nera, maniglie di bronzo, un fiammifero e un mozzicone di candela; fodera ornata di pizzo bianco.

La sete di sangue: come faceva soffrire! Ma non ne hai bisogno: tuttavia non riesci a resistere, e sarà così per sempre; non puoi mai liberartene; lo desideri più di prima.

Quando non scrivevo, stavo sdraiato sul divano di broccato grigio e guardavo le fronde di palma che si muovevano nella brezza, e ascoltavo le loro voci, sotto la terrazza.

Louis supplicava educatamente Jesse di descrivergli ancora una volta l’apparizione di Claudia. E la voce di Jesse, sollecita e confidenziale gli ripeteva: «Ma Louis, non era reale».

Gabrielle sentiva la mancanza di Jesse, ora che se n’era andata. Jesse e Gabrielle avevano passeggiato per ore sulla spiaggia. Sembrava che non si scambiassero mai una parola: ma come potevo esserne sicuro?

Gabrielle faceva piccole cose per rendermi felice. Portava i capelli sciolti perché sapeva che mi piaceva; saliva nella mia camera prima di sparire al mattino. Ogni tanto mi guardava, intenta e ansiosa.

«Vuoi andartene da qui, vero?» le chiedevo intimorito.

«No», diceva. «Qui mi piace. Mi va bene.» Quando diventava inquieta andava alle isole, che non erano molto lontane. Le isole le piacevano. Ma non era di questo che voleva parlare. Aveva sempre in mente qualcosa d’altro. Una volta stava addirittura per parlarne. «Ma, dimmi…» Poi s’interruppe.

«L’amavo?» chiesi. «È questo che vuoi sapere? Sì, l’amavo.»

E ancora una volta non ero stato capace di pronunciare il suo nome.

Mael andava e veniva.

Era stato via una settimana, e quella notte era tornato; era al piano terreno e cercava di indurre Khayman a conversare; Khayman, che affascinava tutti. La Prima Stirpe. Tutto quel potere. E pensare che aveva camminato per le vie di Troia.

La sua vista era sempre sorprendente, una contraddizione in termini.

Faceva di tutto per sembrare umano. Non era facile, in un luogo caldo come questo, dove gli indumenti pesanti danno nell’occhio. A volte si copriva di un pigmento scuro, terra di Siena bruciata e mescolata a un po’ d’olio profumato. Mi sembrava un delitto rovinare tanta bellezza; ma altrimenti come avrebbe potuto fendere la folla umana come un coltello ingrassato?

Ogni tanto bussava alla mia porta. «Non hai intenzione di uscire più?» chiedeva. Guardava il mucchio delle pagine accanto al computer, le lettere nere: La Regina dei Dannati. Restava in attesa mentre cercavo nella mia mente tutti i minuscoli frammenti, gli attimi ricordati vagamente: non se la prendeva. Sembrava che lo sconcertassi, ma non capivo il perché. Cosa voleva da me? Poi sorrideva, quello sconvolgente sorriso da santo.

A volte usciva con il motoscafo nero da corsa di Armand, e lo lasciava andare alla deriva sul golfo mentre stava sdraiato sotto le stelle. Una volta Gabrielle andò con lui, e io fui tentato di ascoltare, da lontano, le loro voci così intime. Ma non lo feci. Non mi sembrava giusto.

E a volte Khayman mi diceva che temeva la perdita della memoria: sarebbe venuta all’improvviso e allora non avrebbe più saputo trovare la strada per tornare da noi. Ma in passato gli era accaduto per la grande sofferenza, mentre adesso era felice. Voleva che lo sapessimo: era felice di stare con noi.

Sembrava che avessero raggiunto una specie d’intesa: dovunque andassero, sarebbero sempre tornati. Quella sarebbe stata la casa della congrega, il santuario: e nulla sarebbe mai più stato come prima.

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