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Jeanne Kalogridis: Il patto con il Vampiro

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Jeanne Kalogridis Il patto con il Vampiro

Il patto con il Vampiro: краткое содержание, описание и аннотация

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Per questo stupefacente debutto narrativo Jeanne Kalogridis ha scelto di confrontarsi con uno dei classici più avvincenti e terrificanti della letteratura dell’orrore: Dracula di Bram Stoker. Misterioso e sensuale, questo romanzo, scritto in forma di diario, pone l’inquietante figura di Dracula al centro di un puzzle particolarmente intricato. Partendo cinquant’anni prima dell’inizio del romanzo di Stoker, il patto con il Vampiro svela infatti l’esistenza di un antico e segreto accordo nella famiglia Dracula. Arkady, pronipote del principe Vlad Tsepesh, meglio conosciuto come Dracula, vive nell’incubo di una terribile minaccia, costretto a procurare sempre nuove vittime al suo adorato prozio per salvare la vita alle persone amate. Coinvolto in un abisso di morte e di sangue, Arkady oserà ribellarsi al suo tragico destino e sfidare Dracula, per il bene della sua famiglia.

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Nonostante le sue condizioni la rendessero goffa, mia moglie si mosse con molta grazia e agilità sulle scale e si affrettò verso mia sorella, in modo che questa non avrebbe dovuto affaticarsi nel camminare. Poi la baciò e disse:

«Le tue belle lettere mi ti hanno già resa cara; mi sento come se fossimo state buone amiche per anni. Come sono felice di incontrarti, finalmente… ma in che triste circostanza!».

Zsuzsanna le prese la mano e la condusse nella casa, portandola via dal gelo dell’aria notturna. Nel salotto principale, tra pianti e sospiri, ci raccontò il decorso della malattia di mio padre e i suoi ultimi giorni. Conversammo per almeno un’ora e poi Zsuzsanna insistette per condurci nella nostra stanza — la mia vecchia camera — poiché Mary era chiaramente esausta. Mi preoccupai che fosse sistemata, poi la lasciai, per andare a vedere insieme a Zsuzsanna mio padre. Lei mi condusse all’estremità est della proprietà, attraverso il poggio erboso, fino alla cappella di famiglia o, meglio, a quella che era stata la cappella, poiché mio padre era stato un agnostico dichiarato che aveva educato i suoi figli ad essere scettici nei confronti degli insegnamenti della Chiesa. Già prima di aprire la pesante porta di legno, potei udire innalzarsi nell’aria fresca della notte le dolci voci esitanti delle donne che cantavano i Bocete , i tradizionali canti di lutto:

Padre caro, alzati, alzati,
Asciuga gli occhi piangenti della tua famiglia!
Svegliati, svegliati, dal tuo sonno;
Di’ una parola, getta uno sguardo…

All’interno, i simboli del cristianesimo — le icone, le statue e le croci — erano stati da lungo tempo rimossi dall’altare, ma non era stato possibile toglierli dalle pareti, poiché ogni superficie piatta luccicava di mosaici bizantini con i santi; dal soffitto dell’alta cupola, da cui pendevano gli enormi lampadari, lo stesso Cristo guardava con aria imparziale verso il basso.

Quando entrai, vidi i prediletti della mia infanzia; Stefano, il martire (che io identificavo sempre con mio fratello), la disastrosa caduta di Lucifero dal Paradiso, e il prode San Giorgio che uccideva il drago insaziabile.

La costruzione non funziona più come un mausoleo o una chiesa, ma come un luogo dove i membri della famiglia possono trovare solitudine e meditazione e, di fatto, possiede ancora un’aura quasi spirituale che ispira un senso di rispetto e di calma. Mio padre aveva trascorso lì molte ore nei tristi anni successivi alla morte di suo figlio.

Dal fondo ci muovemmo verso la parte anteriore, dove delle targhe d’oro inciso segnavano il posto nel quale i nostri antenati riposavano nei loculi costruiti nel muro. Talmente tante erano le generazioni di Tsepesh lì tumulate, che la cappella non poteva contenerne di più e, un secolo e mezzo prima, un nuovo luogo di sepoltura aveva dovuto essere costruito tra la proprietà e il castello.

Oltrepassai i morti sentendo i loro occhi su di me, udendo, tra il frusciare degli abiti di Zsuzsanna e i miei, i loro mormorii di approvazione, e provando la stessa strana sensazione di estrema consapevolezza di cui avevo fatto esperienza durante il viaggio… tranne che non mi muovevo più all’indietro, attraverso i secoli, ma in avanti, emergendo in quel momento dai miei antenati, fuori dalla storia, e muovendomi velocemente come Stefan e Shepherd verso il presente. Verso il mio destino…

Mio padre giaceva, proprio allo stesso modo del piccolo Stefan molti anni prima, in un bara aperta di lucido ciliegio vicino all’altare, coperta da un tessuto nero e circondata da file di candele accese. Due grosse candele bruciavano in un pesante candelabro di ottone a ciascuna delle due estremità della bara. All’estremità superiore del catafalco, da entrambi i lati, c’erano due donne vestite di nero, che cantavano a mio padre, ricordandogli tutto quello che stava lasciando in questa vita, come se credessero, in tutta sincerità, che lui potesse svegliarsi, persuaso a rimanere su questa terra.

A qualche metro di distanza esitai, improvvisamente restio ad affrontare l’oggetto del mio dolore di fronte a testimoni.

«Lasciami, Zsuzsa», dissi a mia sorella. «Vai a riposare. Ti sei presa cura di lui durante tutti questi anni; io lo veglierò per questa notte».

È un’usanza della nostra terra che gli uomini rimangano con il morto — per fare la privegghia , così viene chiamata — credo per l’ignorante convinzione che l’anima debba essere protetta da coloro che potrebbero rubarla.

Mio padre avrebbe senza dubbio disapprovato il seguire una superstiziosa tradizione contadina, ma in quel momento volevo rendergli onore, mostrare il mio rispetto — aiutarlo, anche se ero arrivato in ritardo per questo — e non riuscivo a pensare a null’altro da dargli. Lui era un uomo gentile, tollerante, e io so che me lo avrebbe concesso, con una gentile e affezionata aria di divertimento.

Nello stesso tempo, con l’irrazionalità tipica del dolore, fui infastidito dalle donne che cantavano. A me era concesso di scegliere di onorare mio padre seguendo un’usanza che lui disprezzava, ma non era ammissibile che lo facessero degli sconosciuti.

Zsuzsanna non fece rimostranze, ma indugiò un momento, studiandomi con occhi lucenti per l’affettuosa tristezza e per la luce delle candele.

«Uno dei servi ha portato una lettera da parte dello zio, questa sera presto», disse, tirandola fuori da dove l’aveva messa nella cintura, poi l’aprì in modo che potessi vederla. Era scritta con una calligrafia fina simile a una ragnatela, e diceva (per quanto posso ricordare e tradurre):

Mia carissima Zsuzsanna,

Permettimi, con questa lettera, di esprimervi le mie più sentite condoglianze. Io condivido profondamente la vostra perdita poiché, come tu sicuramente sai, non c’era nessuno al mondo più di tuo padre vicino a me. Senza la sua intelligente e accurata amministrazione delle finanze e della proprietà, non sarei riuscito a sopravvivere, ma parlare del lato affaristico del nostro rapporto, sembra sminuirlo, poiché era molto più di ciò. Sebbene Petru fosse mio nipote, io lo amavo come un fratello, e te e Arkady, come miei propri figli. Credimi: finché potrò respirare, voi non avrete bisogno di nulla… non dovrete temere nulla! Voi siete, dopotutto, gli ultimi a portare il nome dei Tsepesh, e siete la speranza per il futuro della nostra orgogliosa famiglia. Se mai ci fosse qualcosa di cui abbiate bisogno o che desideriate, per favore, fatemi l’onore di chiedermela e l’avrete.

Saluta il nostro caro Arkady non appena sarà tornato, e sua moglie, e fai anche a lui le più sincere condoglianze. Confido che il loro viaggio sia stato sicuro e confortevole. È un peccato che la gioia del loro ritorno a casa debba essere oscurata dalla tragedia.

Ho pagato delle donne per cantare i Bocete per tuo padre; per favore, non affaticatevi con i preparativi. Penserò io a tutto. Con il tuo permesso, potrei passare stanotte per offrire i miei rispetti. Sarà piuttosto tardi, e così non disturberò né te né gli altri, ma ti chiedo soltanto di non chiudere a chiave la porta della cappella.

Il tuo affezionato zio,

V.

Feci un cenno con il capo per indicare che avevo finito. Zsuzsanna piegò la lettera e la rimise via, poi ci scambiammo uno sguardo d’intesa: aveva voluto avvertirmi che la mia solitudine avrebbe potuto essere disturbata. Quindi si alzò sulla punta dei piedi per darmi la buonanotte con un bacio sulla guancia, prima di voltarsi verso la bara di papà per un momento di raccoglimento.

Io rimasi in piedi, immobile e silenzioso, ascoltando il canto, il passo strascicato di mia sorella, ineguale sulla pietra fredda, e poi lo stridere dei cardini di ferro della pesante porta di legno mentre si chiudeva dietro di lei.

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