Jeanne Kalogridis - Il patto con il Vampiro

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Il patto con il Vampiro: краткое содержание, описание и аннотация

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Per questo stupefacente debutto narrativo Jeanne Kalogridis ha scelto di confrontarsi con uno dei classici più avvincenti e terrificanti della letteratura dell’orrore: Dracula di Bram Stoker. Misterioso e sensuale, questo romanzo, scritto in forma di diario, pone l’inquietante figura di Dracula al centro di un puzzle particolarmente intricato. Partendo cinquant’anni prima dell’inizio del romanzo di Stoker, il patto con il Vampiro svela infatti l’esistenza di un antico e segreto accordo nella famiglia Dracula. Arkady, pronipote del principe Vlad Tsepesh, meglio conosciuto come Dracula, vive nell’incubo di una terribile minaccia, costretto a procurare sempre nuove vittime al suo adorato prozio per salvare la vita alle persone amate. Coinvolto in un abisso di morte e di sangue, Arkady oserà ribellarsi al suo tragico destino e sfidare Dracula, per il bene della sua famiglia.

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«Bene», risposi. «Ma è chiaro che hai paura di qualcuno. Di chi?».

Al sentire ciò, è sbiancata un po’ e si è guardata alle spalle come se avesse paura che qualcuno ci stesse spiando. Poi si è avvicinata — un po’ troppo vicino per gli usi inglesi, ma ho imparato, guardando mio marito e la sua famiglia, che i Transilvani, quando parlano, preferiscono stare molto più vicini degli Inglesi — e ha bisbigliato:

«Vlad. Il voievod , il Principe».

Sentivo di conoscere la risposta alla mia domanda, ma le chiesi, nondimeno, abbassando la voce allo stesso volume:

«Perché?».

In risposta, si segnò e mi sussurrò nell’orecchio:

«È uno strigoi » .

«Uno strigoi?». Era chiaramente una parola rumena, ma non l’avevo mai sentita. «Che cos’è?».

Sembrò sorpresa della mia ignoranza e non volle rispondere: si limitò a premere strettamente le labbra e scosse la testa. Quando ripetei la domanda, scappò via dalla stanza.

Il diario di Zsuzsanna Tsepesh

8 aprile. Sono cattiva, cattiva! Una donna malvagia con pensieri malvagi. Il mio dolce papà non è ancora freddo, ed è stato appena sepolto, che io ho già fatto il sogno più vergognoso che si possa immaginare.

Non so nemmeno come pregare nel modo giusto. Papà disprezzava talmente la Chiesa, che non permise mai ai suoi figli di apprenderne i riti. Forse lui e Kasha hanno ragione sul fatto che non esista alcun Dio. Loro sono tanto intelligenti, ma io non lo sono (a volte penso che il mio povero cervello sia storto come la mia colonna vertebrale) e ho un bisogno disperato del conforto del Divino.

Così, questa mattina mi sono inginocchiata ai piedi del letto, nel modo in cui ho visto fare ai contadini alle edicole ai bordi delle strade e ho cercato di chiedere perdono. Non so se ho avuto successo — il solo fatto di inginocchiarmi mi ha dato le vertigini; gli ultimi giorni mi sono sentita così debole, esaurita, senza dubbio, dal dolore — ma sentivo che non avrei potuto affrontare Kasha e la buona e forte Mary, senza prima alleggerire in qualche modo la mia coscienza.

Quando mi sono alzata (con la testa così leggera che ho dovuto afferrare la colonnina del letto per impedirmi di cadere di nuovo in ginocchio), ho sentito un bisogno irresistibile di mettere tutto per iscritto… per confessarmi, si potrebbe dire. Io non ho un prete, e questo diario farà le veci del confessore, sebbene le mie guance si infiammino al pensiero di registrare una tale malvagità.

La notte precedente quella trascorsa, celebrammo il pomana di papà. Era la prima volta da molte settimane che vedevo lo zio e, senz’altro, è stata l’esperienza della sua gentilezza e della sua affettuosa attenzione che ha provocato il sogno. Sono stata così sola negli anni trascorsi, da quando Kasha è partito! Anche papà è stato tanto triste, e poi tanto malato e sempre troppo preoccupato degli affari al castello, per cui mi sono sentita molto, molto sola. Se non fosse stato per le lettere di Kasha e le occasionali visite dello zio, sento che sarei potuta impazzire.

Forse lo sono diventata, un po’. Per un certo tempo, dopo la partenza di Kasha, ero solita parlargli come se fosse ancora qui (sempre lontano dall’udito dei domestici! Hanno troppa paura di noi perché si possa concedere loro fiducia come confidenti e trovano sempre qualcosa su cui spettegolare). Ultimamente, ho cominciato a parlare al piccolo Stefan. Qualche volta immagino che egli cammini al mio fianco con Bruto, attraverso i corridoi, e si sieda accanto a me mentre ricamo, con Bruto accucciato ai nostri piedi (se qualcuno origlia, posso sempre sostenere che stavo parlando al cane).

Qualche volta fingo che sia il figlio che non avrò mai.

Oh, è già abbastanza difficile avere un corpo deforme e malato! Ma il dolore peggiore che provo è quello di sapere che mi sarà sempre negato l’amore di un marito e dei bambini. Sono costretta a condurre una vita solitaria e a dipendere, per consolarmi, dall’affetto platonico di mio fratello e dello zio. Inoltre, sono rosa dalla gelosia… per la felicità che mio fratello e la sua nuova moglie condividono, e persino per le piccole attenzioni che lo zio ha dedicato a Mary durante il pomana.

Dio mi salvi dal mio cuore malvagio!

Bruto ha ripreso ad abbaiare l’altro ieri notte, e la notte scorsa ha cominciato appena qualche minuto dopo che mi ero addormentata… e così, via in cucina! Ero così stanca che, quando sono ritornata da sola a letto, ho immediatamente cominciato a sognare.

Mi sono svegliata per un tamburellare alla finestra della camera o, piuttosto, è nel sogno che sono stata svegliata da un tale rumore… leggero ma insistente, come se un uccello stesse battendo le sue ali contro il vetro. L’aria notturna era diventata eccezionalmente fredda ed io avevo chiuso la finestra prima di ritirarmi.

Nel sogno, mi sono svegliata e sono andata verso la sorgente del rumore, niente affatto spaventata da esso, e nemmeno curiosa, come se sapessi esattamente che cosa o chi mi attendeva lì, come se ne fossi irresistibilmente attirata.

Tirate indietro le imposte ho aperto la finestra, ma non ho visto nulla tranne un raggio di luce lunare, che è entrato formando una pozza di luce biancodorata sul pavimento. In quel cerchio di luce, fluttuavano dei granelli di polvere luccicante… dapprima pigramente, poi sempre più veloci, finché hanno formato un vortice, si sono fusi e hanno preso forma.

Quel movimento mi ha dato le vertigini e ho chiuso gli occhi.

Quando li ho riaperti, lo zio stava nel cono di luce. Ricordai immediatamente che quello era lo stesso sogno che avevo avuto la notte precedente e la notte prima di quella: vedevo sempre il volto dello zio alla finestra, ma ora, senza Bruto, lui era libero di entrare.

Era come se fosse più giovane, più bello; ancora una volta, tutto ciò non mi provocò alcuna sorpresa. Non ebbi uno shock, né paura, né provai un senso di indecenza nel vederlo lì, nella mia camera, nel mezzo della notte. No, da quella donna depravata che sono, mi feci avanti audacemente, e lo abbracciai bisbigliando:

«Zio! Sono così contenta che tu sia venuto!».

Rimase perfettamente immobile e diritto, come se fosse riluttante a muoversi. Sotto le mie mani, i suoi muscoli — è così forte, più di un uomo di qualsiasi età! — erano tesi, rigidi e fermi come la pietra. Per un attimo, nessuno di noi due parlò: ci guardammo soltanto l’un l’altro negli occhi (i suoi sono tanto belli da suscitare invidia in una donna! Profondi, di un verde intenso, grandi e languidi). Nella luce lunare, la sua pelle riluceva come se fosse impregnata di lucente fuoco bianco.

Poi disse: «Zsuzsa, temo che sia un grave sbaglio. Devo andare…».

«No», lo supplicai, e lo tenni più stretto, temendo che si potesse disintegrare in polvere luccicante tra le mie braccia. «È quello che voglio! Non lo vedi? Io ti ho attirato qui, notte dopo notte. Baciami soltanto…!».

Sotto la fine seta del mantello, i suoi muscoli si tesero, poi si rilassarono e lui alzò un mano fredda a causa del gelo notturno fino alla mia guancia, e l’accarezzò. Mentre lo guardavo negli occhi, ipnotizzata, vidi le sue pupille che divenivano rosse, come se le foreste al loro interno fossero state all’improvviso consumate dalle fiamme.

«Per favore», bisbigliai, e lui si chinò in avanti premendo le sue labbra sulla mia guancia. Oh, quelle labbra erano fredde, ma era un gelo che bruciava, e io caddi all’indietro e mi abbandonai su un braccio forte come l’acciaio.

«Sono così affamato, Zsuzsa», sospirò. «Non riesco a resistere ancora…».

Con le labbra sfiorò la mia pelle, tanto che sentii il suo respiro caldo sopra di me, quindi scese giù, giù, attraverso la linea della mascella, oltre la soffice curva, fino alla tenera carne del collo. Mentre indugiava lì, tremai di pura estasi; poi allungò la mano libera e tirò il nastro che chiudeva, al collo, la mia camicia da notte. Il nastro si slegò e il bianco e leggero tessuto mi cadde intorno alla vita. Io ho la carnagione chiara, la mia pelle non ha mai visto il sole, ma la sua era più bianca e, quando la luna si aprì un varco tra le nuvole, brillò di riflessi dorati, rosa e blu, come un opale.

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