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Ursula Le Guin: Il pianeta dell'esilio

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Ursula Le Guin Il pianeta dell'esilio

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Ella non sapeva che il popolo degli stregoni allevasse guerrieri, o che desse valore alla forza e all'abilità. Sebbene avesse sentito parlare della loro lotta libera, se li era sempre raffigurati come un gruppo di figure aggobbite, simili a ragni, chiuse in una tana poco illuminata e curve su una ruota di vasaio, intente a fare le delicate stoviglie e i vasi di pietrachiara che poi si potevano ammirare nelle tende degli uomini. E c'erano leggende, e voci e frammenti di racconti; un cacciatore poteva essere «fortunato come un Nato Lontano»; un certo tipo di terra veniva chiamato terra magica perché il popolo degli stregoni le attribuiva molto valore ed era disposto ad accettarla come moneta di scambio. Ma questi frammenti costituivano tutte le sue conoscenze. Per molto tempo, fin da prima della sua nascita, gli Uomini dell'Askatevar avevano battuto le terre dell'est e del nord, lungi dai Nati Lontano. Ella non si era mai recata a portare un raccolto nelle stanze-deposito sotto il Monte Tevar, e quindi non era mai stata sulla costa occidentale fino all'attuale fase lunare, allorché tutti gli Uomini del Territorio dell'Askatevar si erano radunati, insieme con le mandrie e le famiglie, per costruire la Città Invernale sopra i granai sepolti. In verità non sapeva assolutamente nulla della razza straniera, e quando si accorse che il lottatore che aveva vinto, il giovane sottile chiamato Jonkendy, la fissava dritto negli occhi, distolse lo sguardo e fece un passo indietro, per la paura e il disgusto.

Egli avanzò verso di lei; il suo corpo nudo e nero era lucido di sudore. — Tu vieni da Tevar, no? — le chiese, parlando nella lingua degli uomini, ma pronunciandola in un modo che storpiava metà delle parole. Felice della vittoria, spazzandosi via la sabbia dalle braccia sottili, le rivolse un sorriso.

— Sì.

— Cosa possiamo fare per te? Qualcosa che desideri?

Ella, ovviamente, non poteva guardarlo da così breve distanza, ma il tono delle sue parole era insieme amichevole e canzonatorio. Era la voce di un ragazzino; pensò che Jonkendy doveva essere, probabilmente, più giovane di lei. Non aveva intenzione di lasciarsi canzonare da lui. — Sì — rispose in tono gelido. — Desidero vedere quella roccia nera, in mezzo alla sabbia.

— Vai. La strada è libera.

Provò l'impressione ch'egli cercasse di scrutarle nel viso, che teneva fisso al suolo. Si voltò, allontanandosi da lui.

— Se qualcuno ti ferma, digli che ti manda Jonkendy Li — le disse ancora. — O vuoi che ti accompagni?

Non lo degnò neppure di una risposta. A testa ritta, con lo sguardo fisso in basso, si avviò in direzione della via che portava dalla piazza alla strada sopraelevata. Che nessuno di quegli pseudo-uomini neri e sogghignanti osasse pensare ch'ella avesse paura!

Nessuno la segui. Nessuno parve notarla, passando accanto a lei per la breve strada. Ella giunse alle grandi colonne del viadotto, si diede un'occhiata alle spalle, guardò innanzi a sé e s'impietrì.

Il ponte era immenso; una vera strada per giganti. Dalla vetta della montagna le era sembrato una costruzione esile, che scavalcava campi, dune e sabbia con il passo leggero delle sue arcate; ma adesso s'accorse che era abbastanza ampio perché vi potessero passare, fianco a fianco, venti uomini, e che conduceva in linea retta alle nere porte della torre di roccia, che si profilavano nella distanza. Non c'era ringhiera a separare l'ampia pavimentazione dall'abisso sottostante. L'idea stessa di inoltrarsi sul ponte e di camminarvi era semplicemente assurda. Non ebbe cuore di farlo; non era un cammino adatto a piedi umani.

Una stradicciola laterale la condusse a una porta che si affacciava a ponente, nelle mura della città. Si affrettò ad oltrepassare alcune stie lunghe e vuote, alcune stalle per il bestiame e uscì furtivamente dalla porta, con l'intenzione di fare il giro delle mura e ritornare a casa.

Ma laggiù, dove le scogliere su cui sorgeva la città erano più basse, dove erano intagliate numerose gradinate, si aprirono ai suoi occhi i campi sottostanti, pacifici e ben ordinati nel colore dorato del pomeriggio; e subito al di là delle dune si stendeva l'ampia marina, dove ella avrebbe potuto trovare i lunghi e verdi fiordimare che le donne dell'Askatevar ponevano nei bauli e si intrecciavano nei capelli nei giorni di festa. Aspirò lo strano odore della salsedine. In tutta la sua vita non aveva mai camminato sulla sabbia del mare. Il sole era ancora abbastanza alto. Discese per una teoria di scalini scavati nella roccia e attraversò i campi, superò le dighe e le dune e infine raggiunse le sabbie piane e luminose che si stendevano fino a perdersi all'orizzonte, a nord, ad ovest e a sud.

Il vento spirava, splendeva debolmente il sole. Da assai lontano, ad occidente, ella cominciò a udire un suono incessante, come d'una voce immensa e remota che mormorasse una nenia. Solida e piana, infinita, la sabbia giaceva sotto i suoi piedi. Corse, per la pura gioia di correre, fermandosi ad osservare con una risata d'allegria gli archi del viadotto, che con passo immenso e solenne accompagnavano l'esile e ondulata scia delle sue orme, poi riprese a correre e di nuovo si fermò a raccogliere argentee conchiglie che giacevano nella sabbia, semisepolte. Lucente come un pugno di sassolini colorati, la città dei Nati Lontano era appollaiata in vetta al precipizio che sorgeva alle sue spalle. E quando fu stanca della brezza che sapeva di salmastro e stanca della solitudine, si accorse d'essere ormai giunta all'altezza della torre di rocce, che ora si stagliava tra lei e il sole, densa e nera.

Nella lunga ombra delle terre stava in agguato il freddo. Ella rabbrividì, e riprese a correre per uscire dall'ombra, cercando di non avvicinarsi troppo alla nera mole di roccia. Desiderava vedere fino a che punto fosse sceso il sole, quanto dovesse ancora correre per poter scorgere le prime ondate del mare.

Esile e profonda fra la brezza, una voce le echeggiò nelle orecchie, gridandole qualcosa, gridando in modo talmente strano e pressante ch'ella s'immobilizzò e si guardò alle spalle, fissando con un tremito nel cuore la grande isola nera che s'innalzava dalla sabbia. Che fosse quel luogo stregato a chiamarla?

Sul viadotto privo di ringhiera, curva dietro una delle colonne che affondavano nella roccia dell'isola, alta lassù e distante, era ferma una figura nera, che stava gridando verso di lei.

Si volse, e cominciò a correre; poi si fermò e tornò sui suoi passi. Il suo cuore fu stretto da un terrore immenso. Avrebbe voluto correre, e non si mosse. Il terrore l'avvolse, ed ella non poté muovere né mano né piede: poté soltanto rimanere dov'era, immobile e tremante, mentre le sue orecchie erano avvolte da un forte ruggito. Lo stregone della torre nera stava intessendo ai suoi danni un incantesimo da ragno. Allargando le braccia di scatto, egli gridò nuovamente le parole pressanti e affilate ch'ella non riusciva a capire, e che le giungevano indebolite dal vento e simili al richiamo di un uccello marino, rooc, rooc! Il ruggito si accrebbe nelle sue orecchie, ed ella si rannicchiò sulla sabbia.

Poi, d'improvviso, chiara e tranquilla, all'interno della sua testa, una voce disse: «Corri. Alzati e corri. Alla rocca… svelta!». E prima ancora ch'ella potesse rendersene conto, si era alzata in piedi; e aveva preso a correre. La voce tranquilla le parlò ancora, per guidarla. Senza vedere, ansando per respirare, raggiunse alcuni scalini neri, scavati nella roccia, e si arrampicò a fatica su di essi. A una svolta, una figura nera accorse per sorreggerla. Ella tese la mano, e venne per metà accompagnata, per metà trascinata, fino alla successiva rampa di scalini, e poi lasciata. Cadde contro il muro, poiché le gambe non erano più capaci di sorreggerla. La figura nera l'afferrò, l'aiutò a rialzarsi, e parlò forte, con la stessa voce che le aveva parlato entro il cranio: — Guarda — le disse, — ecco che arriva.

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