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Robert Silverberg: L'arca delle stelle

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Robert Silverberg L'arca delle stelle

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La Wotan è una gigantesca arca spaziale. La sua missione è trovare una nuova terra per la razza umana. Ma i telepati presenti a bordo captano un inquietante messaggio dallo spazio: intelletti che popolano il vuoto intergalattico entrano in contatto con l’equipaggio. Nell’Universo, infatti, la vita pullula anche nel nulla che divide le stelle… Forme di vita inconcepibili si preparano a ricevere i nostri simili. Che cosa c’è là fuori?

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E tuttavia, proprio a causa dell’incredibile velocità della Wotan e della linearità del suo moto, visto che l’astronave li stava trasportando senza alcun attrito attraverso l’ampio e vuoto mantello del non-spazio a una velocità quattro volte maggiore della velocità della luce e sempre in aumento, il comandante insisteva a visualizzarla in quel modo, affusolata, aggraziata, argentea. Gli sembrava giusto in un senso che trascendeva il mero senso letterale. Sapeva com’era in realtà, ma non riusciva a scrollarsi dalla mente quell’immagine gloriosa, nonostante conoscesse a memoria la vera forma dell’astronave che comandava. Ecco dunque che i suoi quotidiani pellegrinaggi attraverso l’interno labirintico dell’astronave stridevano fortemente con la meravigliosa immagine mentale con cui se la raffigurava.

Gli intricati livelli inferiori della Wotan erano particolarmente difficili da attraversare. I congestionati corridoi, pieni di semicupole, tubazioni, dispositivi di riciclaggio e quant’altro serviva per il funzionamento a lungo termine dell’astronave curvavano e si incrociavano ogni pochi metri con la brusca, folle intricatezza di un gioco a percorso. Ma il comandante ormai li conosceva e, in ogni caso, era un uomo dalla straordinaria capacità di orientamento. Avanzava con passo calmo e ponderalo. Il suo portamento rifletteva l’intenso fuoco ascetico che tanto forte brillava in lui. Gli ostacoli e la penombra di quei corridoi non potevano metterlo in difficoltà poiché per lui erano solo degli impedimenti.

Con passo leggero, si aprì la strada attraverso un fitto e vibrante intrico di tubi opachi e superò una serie di basse, gonfie semicupole. Erano le semicupole dei magazzini principali. In camere blindate sotto quel livello si trovavano i macchinari indispensabili alla riuscita della loro missione: dispositivi medici, congelatori, bolle raccogli-dati, placche di addomesticamento dei possibili animali locali, archi scavatori, sonde per il campionamento del suolo, kit di sostituzione genetica, telai computerizzati per indumenti a matrice, convertitori di idrocarburi, noduli climatici ed equipaggiamento per la terraformazione dei pianeti abitabili, robot e computer, replicatori molecolari, sagome, pannelli e componenti per macchine pesanti e ancora tutto ciò che sarebbe servito per rendere abitabile il loro nuovo mondo. Ancora più sotto si trovava la banca degli embrioni, diecimila ovuli già fecondati custoditi in capsule a congelamento rapido, più sperma e ovuli non fecondati in quantità sufficiente a mantenere la necessaria differenziazione genetica a mano a mano che sulla nuova colonia fosse cresciuta la popolazione.

In quel punto il corridoio si biforcava, allargandosi bruscamente. Lui proseguì a sinistra, per poi aprire dopo poco la porta del laboratorio di Hesper. Un lampo di luce colorata lo accolse, blu, verde e rosso incandescente. Le stelle pulsavano e brillavano con un eccesso quasi divertente. Lo schermo di Hesper era posto idealmente al centro dell’universo, nel punto verso cui tutto fluiva. Da ogni angolo del firmamento giungevano fiumi di dati, catturati e in qualche modo riconvertiti in forma visiva. Ma solo Hesper era in grado di capire il risultato; neppure a lui, al comandante dell’astronave, era consentito penetrare quella meraviglia della tecnica.

L’aria in quel locale era calda e puzzava di chiuso, densa e umida come l’aria della giungla. Hesper adorava il caldo e regolava l’umidità sempre al massimo. Era un uomo di colore, piccolo e con labbra sottili sempre tirate, con un naso sorprendentemente a becco che tradiva la sua provenienza, una piccola isola di fronte alla costa occidentale dell’India. Il sole doveva brillarvi molto forte; il comandante guardò la sua pelle bianchissima pensando che se mai avesse messo piede in quel luogo si sarebbe coperto di ustioni in un solo minuto. Era così il luogo dove Hesper stava portando tutti loro, un pianeta con un sole tanto feroce?

— Salve, comandante, guardi qui: quattro nuovi prospetti — disse subito Hesper.

Così dicendo pensò bene di indicarli sullo schermo. — Qui, qui, qui e qui. — Hesper era un eterno ottimista. Per lui la galassia abbondava in modo esagerato di pianeti abitabili.

— Davvero? E con questi a quanti prospetti siamo arrivati? Cinquanta? Cento?

— Sessantuno, per la precisione, in una sfera di diametro pari a centotrenta anni-luce. Sono tutti sistemi conosciuti, con soli plausibili e pianeti che non abbandonano mai la zona di biosfera. Tuttavia, non ho abbastanza dati per consigliare un atterraggio su uno di questi pianeti in particolare.

Il comandante annuì. — Già, naturalmente.

— Ma non ci vorrà molto, comandante, non ci vorrà molto. Glielo garantisco.

Il comandante offrì a Hesper un sorriso di circostanza. Un giorno o l’altro, ne era certo, Hesper avrebbe davvero trovato uno o due pianeti che meritassero un’occhiata da vicino: credere nella loro esistenza era una sorta di atto di fede a bordo della Wotan; tuttavia si capiva chiaramente che tutto quell’entusiasmo era solo ciò che era, semplice entusiasmo. Hesper accettava troppo disinvoltamente qualsiasi ipotesi. Ma non importava: in effetti, il viaggio era appena cominciato. Il comandante non si aspettava di entrare là dentro e di venire subissato di nuove scoperte, almeno non ancora; lui voleva semplicemente dare un’occhiata agli schermi.

Hesper gli aveva spiegato più di una volta il significato dei mulinelli e dei lampi di luce multicolore: erano sequenze di criteri per stabilire l’abitabilità di un pianeta. Dapprima arrivavano i dati astronomici grezzi: la posizione di ciascun sole sulla sequenza principale, poi gli indizi che tradivano la presenza di corpi planetari in posizioni plausibili. Le distanze orbitali medie venivano tracciate in base alla luminosità. Poi una ricerca spettroscopica. Dati sulla presenza di atmosfera, analisi delia composizione chimica: adatta alla vita oppure no? E poi l’analisi della biosfera: condizioni di squilibrio termodinamico, che indicavano la possibile presenza di traspirazione e respirazione, gamma di temperature, anomalie meteorologiche…

Decine e decine di invisibili tentacoli scandagliavano l’incomprensibile vuoto che tutto avvolgeva. Una foresta di recettori, ampiamente in grado di lacerare il tunnel di non-spazio in cui viaggiava l’astronave e di estendersi nella buia realtà che si trovava oltre, raccoglieva continue informazioni, dati molto imprecisi rispetto a quanto si poteva raccogliere nello spazio vero e tuttavia ugualmente utilizzabili. La decodifica dei dati originava quindi le luminose composizioni che riempivano il laboratorio e sulle quali quel piccolo uomo un po’ paffuto stava chino giorno dopo giorno, valutando, scartando, considerando, cercando senza posa il nuovo Eden che rappresentava l’obbiettivo ultimo della spedizione.

Hesper voleva discutere i nuovi prospetti. Il comandante l’ascoltò distrattamente. In quel momento cercava solo il semplice relax che veniva dal guardare gli schermi, quelle configurazioni astratte così colorate e vivaci, i selvaggi mulinelli di colori che ruotano vorticosamente pulsando di luce come comete impazzite. Davvero avevano un significato? Solo Hesper lo sapeva. Lui aveva sviluppato quel sistema di raccolta dati e solo lui poteva, in effetti, decodificare e interpretare i dati misteriosi che i sensori dell’astronave rubavano allo spazio circostante. Al momento opportuno, il comandante avrebbe prestato una totale attenzione ai dati raccolti dal piccolo uomo. Ma quel momento doveva ancora giungere.

Il comandante restò in piedi immobile a guardare, senza porsi domande, come un bambino che prova un innocente piacere contemplando delle strane figure colorate. Si concedeva così pochi piaceri: quello era innocuo e confortante. Le stelle sembravano danzare sullo schermo, classici fandango e vivaci gagliarde. Credette di vedere la luce blu metallica di Vega, quella smeraldo di Deneb e quella dorata di Arturo, ma sapeva che poteva trattarsi benissimo di altre stelle. Il firmamento recepito dai sensori non era quello che tanto spesso contemplava nei freddi cieli della sua Norvegia durante le frequenti notti insonni. Ciò che i sensori di Hesper percepivano non era in effetti neppure il firmamento, ma l’equivalente informatico del cielo depurato dalle distorsioni del non-spazio. Ne risultava una mappa delle sorgenti di energia e delle masse inerti presenti nello spazio vero, una mappa in continua evoluzione a causa della fantastica velocità a cui la Wotan procedeva. Ma non importava che quelle stelle virtuali fossero vere oppure illusorie, non importava che si chiamassero Markab, Procione, Rigel o Betelgeuse, oppure che non si chiamassero affatto: per lui poteva trattarsi anche solo di punti di luce immaginari. Era la loro danza che lo attraeva.

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