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Robert Silverberg: L'arca delle stelle

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Robert Silverberg L'arca delle stelle

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La Wotan è una gigantesca arca spaziale. La sua missione è trovare una nuova terra per la razza umana. Ma i telepati presenti a bordo captano un inquietante messaggio dallo spazio: intelletti che popolano il vuoto intergalattico entrano in contatto con l’equipaggio. Nell’Universo, infatti, la vita pullula anche nel nulla che divide le stelle… Forme di vita inconcepibili si preparano a ricevere i nostri simili. Che cosa c’è là fuori?

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Degli altri effettivi volontari, Heinz fu il primo a guadagnarsi l’approvazione formale della commissione, Paco il secondo, Sylvia la terza, poi arrivarono Bruce, Huw, Chang e Julia. Il comandante, per contro, fu uno degli ultimi a passare gli esami di idoneità. A livello formale, l’ultima fu proprio Noelle, ma lei faceva parte del progetto quanto l’astronave stessa, e tutto sommato per ragioni molto simili.

Per ognuno di loro tranne che per Noelle le procedure per l’idoneità furono le stesse; semplici, crudeli, umilianti e bugiarde. Generalmente parlando, i membri dell’equipaggio vennero scelti prima ancora di chiedere loro un assenso formale. Il mondo era diventato un posto molto piccolo. Le capacità di ognuno erano conosciute. Nessuno era più particolarmente famoso, ma nessuno, d’altra parte, era più totalmente anonimo.

Tuttavia si decise ugualmente di seguire certe formalità. Il processo di selezione a priori poteva comportare qualche errore, e nessuno voleva imbarcare la persona sbagliata. E quindi vennero convocati millecento candidati per i cinquanta posti disponibili a bordo della Wotan. I candidati giunsero da ogni parte del mondo, un campione attentamente studiato che rappresentava tutte le popolazioni della Terra. Molte delle antiche nazioni, un tempo tanto divise e rumorosamente piene di sé, godevano ancora di una formale, tenue esistenza, più come romantiche entità che come stati sovrani, ma tuttavia il concetto esisteva ancora e quindi sembrò opportuno rendere il dovuto omaggio alla quasi realtà della loro quasi esistenza. Pertanto ognuno degli antichi stati sovrani o dei frammenti significativi in cui si erano divisi venne invitato a candidare alcuni dei suoi cittadini più rappresentativi. Ecco dunque che il lungo elenco dei candidati arrivò a comprendere la maggior parte, o forse tutti (chi poteva più dirlo? Le distinzioni si erano fatte tanto sottili!) i gruppi etnici, politici, religiosi ancora attivi nella piccola e tranquilla civiltà moderna, nata dalle turbolente ceneri della società industriale e post-industriale. Nello schema cosmico delle cose non contava più nulla il fatto che uno si considerasse un finlandese e un altro un turco, un tedesco o un inglese, un cinese o uno svedese, e neppure risultavano più applicabili le vecchie distinzioni razziali che tanti guai avevano portato al mondo intero, per non parlare delle distinzioni teologiche. Nulla di tutto questo contava più nel mondo del futuro. Tuttavia alcuni amavano ancora proclamare agli altri le loro origini o le loro convinzioni: “Io sono gallese”, oppure “Io seguo la chiesa cattolica romana”, e ancora “Nelle mie vene scorre il sangue dell’aristocrazia normanna”, e via dicendo. Le ragioni erano le stesse di sempre: convinzioni filosofiche, sentimentali, estetiche, attribuzione di qualche importanza alle proprie origini, gusto per l’anacronismo o per la rissosità… La gente li considerava bizzarri ed eccentrici, ma dava loro una certa importanza. La società umana aveva percorso molta strada, certo, ma le antiche vestigia delle grandi istituzioni del passato e le solenni distinzioni tra le antiche civiltà spuntavano ancora dappertutto, come ossa di grandi dinosauri slavate dal sole estivo. Avevano cessato di rappresentare dei “problemi”, questo sì, ma non accennavano a scomparire. E probabilmente non sarebbero mai scomparse. E quindi la lista dei candidati per la Wotan era quanto di più complicato ed eterogeneo si potesse concepire. Anche il gruppo finale lo sarebbe stato, per il semplice motivo che le formalità andavano seguite fino in fondo.

Gli esaminatori furono cinque, tutte personalità illustri, imparziali, e sedettero attorno a un grande tavolo all’ultimo piano del più alto grattacielo di Zurigo. Le grandi vetrate di questo grattacielo erano in grado, su richiesta, di offrire un panorama che spaziava fino in Francia. I candidati sedevano a questo tavolo e i cinque esaminatori chiedevano loro cose che già sapevano, ponendo domande sulle capacità tecniche, sullo stato di salute, sul lavoro, gli hobby, la stabilità psicologica e i motivi per cui il candidato desiderava dire addio per sempre al pianeta Terra. Si rendeva conto il candidato che avrebbe dovuto trascorrere un periodo indefinito (uno, cinque, dieci, cento anni) in uno spazio chiuso con altre quarantanove persone? La gente rispondeva, parlava, spiegava, e solo pochi si rendevano conto che i cinque esaminatori non ascoltavano affatto. Dopo quella prima raffica di domande arrivava la richiesta di elencare i propri difetti. Quelli che esitavano si vedevano proporre un elenco veritiero dei loro difetti più intimi, un elenco dannatamente lungo a volte, per poi essere spronati a commentare i cinque difetti peggiori. Complessivamente l’esame durava non più di venti, trenta minuti. Dopodiché al candidato veniva detto, senza mezzi termini, che purtroppo era stato rifiutato. Tutti dovettero udire le stesse parole, pronunciate con calma, pacatamente e senza segno di rimorso: — Lei non è idoneo alla missione. Siamo spiacenti per i disagi che le abbiamo procurato. — Era quello il vero esame: studiare le reazioni di ognuno davanti a un netto rifiuto. Tutto il resto era solo fumo negli occhi.

Quelli che passavano erano quelli che avevano rifiutato il rifiuto, ognuno a modo suo. L’arroganza, purché sana e motivata, fruttava molti punti. Il futuro comandante della spedizione aveva reagito dicendo: — State scherzando, naturalmente. Sono l’uomo che cercate, lo capirebbe chiunque. E non mi piacciono queste manovre da quattro soldi!

Heinz, svizzero e figlio di uno degli esaminatori, aveva reagito allo stesso modo, aggiungendo che il mondo non poteva permettersi di rifiutare un candidato ottimale e per quel motivo, ne era certo, la commissione avrebbe riconsiderato la sua posizione. Heinz aveva dato un notevole contributo alla progettazione della Wotan, e pochi conoscevano a fondo come lui la prima astronave interstellare umana. Pensavano davvero di poter lasciare a terra l’unico progettista presentatosi come candidato?

Huw, che in effetti si definiva con orgoglio “un gallese”, fu un altro a reagire affermando con calma e compostezza che la commissione stava commettendo un grosso errore. La sua squadra aveva progettato gli apparecchi che dovevano servire a esplorare i nuovi mondi: volevano negargli il diritto di vederli all’opera? E chi avrebbe modificato gli apparecchi se le condizioni ambientali di pianeti sconosciuti si fossero rivelate diverse dal previsto? No, lui doveva salirci per forza a bordo della Wotan.

E così via.

La maggior parte delle donne che si erano candidate cercò invece di aggiungere al proprio sconcerto un tocco di afflizione e dispiacere, in parte per se stesse ma soprattutto (e quella fu un’altra dimostrazione di arroganza costruttiva, anche se non perfettamente celata) per la missione in sé. Sylvia si vantò di conoscere la microchirurgia tectogenica meglio di chiunque altro al mondo. Senza le sue abilità, come potevano le future generazioni di nuovi coloni adattare alle loro necessità le condizioni ambientali di pianeti sconosciuti? Anche Giovanna fece notare che sarebbe stato un peccato privare la spedizione delle sue conoscenze di chimica metabolica, e in effetti c’era qualcosa di magico nella sua capacità di porre in relazione le strutture molecolari con le necessità nutrizionali. Invece Sieglinde, che aveva fornito un prezioso contributo nell’elaborazione di alcuni teoremi fondamentali per il calcolo delle leggi del viaggio nel non-spazio, si limitò a commentare che lei apparteneva a quella missione e quindi non poteva accettare alcun rifiuto.

Ciò che la commissione cercava, e che già sapeva di trovare in tutti coloro che erano stati scelti ancor prima che l’esame formale cominciasse, era l’espressione di un giustificabile senso di autostima temperato da una buona dose di filosofico realismo. Chiunque avesse perso il controllo, urlato, pianto, pregato, minacciato sarebbe stato inevitabilmente rifiutato. Ma nessuno lo fece, nessuno dei cinquanta prescelti.

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