Oscar, invece, non aveva particolare dimestichezza né con la devozione né con la lealtà, ma si era allenato a riconoscere negli altri tali qualità. Non era certo un caso che Pelicanos fosse il dipendente di Oscar che lo seguiva da più tempo.
Pelicanos abbassò la voce. «Ma prima che io vada, Oscar, ho bisogno che tu mi faccia un piccolo favore. Devi dirmi cosa hai in mente.»
«Sai che lo faccio sempre, Yosh.»
«D’accordo, allora fallo ancora una volta.»
«Molto bene.» Oscar passò sotto un arco di rami verde e alto sui cui lati spuntavano boccioli rosa. «Allora, questa è la situazione: io amo la politica. È un gioco per cui sembro essere tagliato alla perfezione.»
«Questa non è una novità, capo.»
«Tu e io abbiamo appena concluso la nostra seconda campagna politica e siamo riusciti a fare eleggere il nostro candidato. Questo è un grosso risultato. Tutti sanno che un seggio al Senato federale è una grande occasione politica.»
«Sì, è vero. E quindi?»
«E quindi, nonostante tutte le nostre fatiche, siamo di nuovo nel deserto della politica.» Oscar scostò un ramo fetido dalla spalla della giacca. «Credi davvero che la signora Bambakias voglia qualche dannatissimo animale raro? Stamattina alle sei mi arriva una chiamata dal nuovo capo dello staff. Mi dice che la moglie del senatore è molto interessata al mio attuale incarico e che, se è possibile, vorrebbe avere un animale esotico. Ma non mi chiama lei, e neppure Bambakias. No, mi chiama Leon Sosik.»
«Giusto.»
«Quel tizio sta cercando di sabotarmi.»
Pelicanos annuì saggiamente. «Senti, Sosik sa benissimo che tu vuoi il suo lavoro.»
«Già. Lo sa. Per questo mi sta con il fiato sul collo: in modo da essere sicuro che io stia davvero scontando la mia pena in questo posto sperduto nel Texas. E per giunta ha perfino la faccia tosta di affibbiarmi questa piccola commissione. Così facendo, non può perdere. Se gli rifiuto un favore, commetto una follia. Se fallisco o finisco nei guai, allora mi fa fuori. E se invece ci riesco, sarà lui ad attribuirsi ogni merito.»
«Sosik sa come condurre le lotte interne. Sono anni che lavora nell’ambiente di Washington. Sosik è un vero professionista.»
«Sì, è come dici tu. E per lui noi siamo soltanto dei principianti. Ma vinceremo ugualmente. E vuoi sapere in che modo? Useremo di nuovo la strategia della campagna. In principio, agiremo mantenendo un basso profilo, perché nessuno crederà che abbiamo davvero una possibilità qui. Ma poi supereremo a tal punto le loro aspettative, ci daremo talmente da fare in questa campagna che spazzeremo via completamente l’opposizione.»
Pelicanos sorrise. «Un piano tipico della tua mente, Oscar.»
Oscar sollevò un dito. «Ecco il piano. Scoviamo i pezzi grosso del posto, scopriamo quello che vogliono e facciamo degli accordi. Eccitiamo i nostri e confondiamo i loro. E infine, battiamo sotto il profilo organizzativo chiunque cerchi di fermarci. Lavoriamo più di loro e attacchiamoli su argomenti che non si aspetterebbero mai, e insistiamo, insistiamo, senza mai fermarci; alla fine li metteremo al tappeto!»
«Ha tutta l’aria di essere un lavoro duro.»
«È vero, ma ho radunato un numero sufficiente di persone per raggiungere lo scopo. Hanno dimostrato di saper lavorare insieme in politica. Sono creativi, intelligenti, e tutti, fino all’ultimo, mi devono un bel po’ di favori. Che ne pensi allora? Ce la farò anche stavolta?»
«E lo chiedi proprio a me?» chiese Pelicanos, allargando le braccia. «Al diavolo, Oscar, io sono sempre pronto. Lo sai.» Poi si permise una risatina allegra.
I vecchi dormitori del Collaboratorio offrivano un’ospitalità cupa e sinistra. La richiesta di letti era alta, poiché il laboratorio federale ospitava un numero sconfinato di nomadi del mondo scientifico, appaltatori in carriera e varie specie esotiche di burocrati para-scientifici. I dormitori erano precari edifici a due piani, con bagni e cucine in comune. Le stanze disponevano di pochi mobili di compensato, di qualche lenzuolo e asciugamano. Le serrature a tessera magnetica funzionavano con le carte d’identità del Collaboratorio. Molto probabilmente, le smart card e le serrature compilavano dossier automatici su cui venivano registrate le entrate e le uscite giornaliere di chiunque, a beneficio dei responsabili della sicurezza locali.
Sotto l’immensa cupola formata da lastre a forma di losanga non esistevano variazioni climatiche. L’intera gigantesca struttura era sostanzialmente un mostruoso reparto di cura intensiva, tutto persiane mobili, luci accecanti ed enormi filtri d’aria alla zeolite; in sottofondo si udiva il costante ronzio di generatori ospitati in profonde cavità sotterranee. I laboratori biotecnologici del Collaboratorio erano costruiti come fortezze. I dormitori del personale, al contrario, erano del tutto privi di vere e proprie pareti, di soffitti, o di altri elementi isolanti. Erano angusti, affollati e rumorosi.
E così, pur di potere svolgere il proprio lavoro in santa pace, Donna Nunez era intenta a rammendare alcuni vestiti sulle panchine di legno all’esterno dell’edificio che ospitava il dipartimento Antinfortunistica. Donna aveva portato con sé il cestino da lavoro con l’occorrente per cucire e tutta una serie di abiti della krew. Oscar, invece, aveva con sé il computer portatile. Preferiva evitare di lavorare in camera sua, da quando aveva avuto la certezza istintiva che era sottoposta a sorveglianza elettronica.
L’edificio era uno dei nove che sorgevano lungo la circonvallazione centrale che girava intorno alle torri scintillanti della Zona Calda. Quest’ultima era circondata da vasti appezzamenti a cuneo di colture sperimentali manipolate geneticamente: sorgo che traeva le sostanze nutritive dall’acqua salata, riso rampicante e qualche mora transgenica. I campi erano circondati a loro volta da una stretta strada a due corsie. Questa strada ad anello costituiva la principale arteria di scorrimento all’interno della cupola del Collaboratorio, dunque rappresentava un eccellente punto di osservazione dei bizzarri costumi della gente del luogo.
«Dico sul serio, quei dormitori sudici e puzzolenti non mi infastidiscono particolarmente» commentò Donna in tono tranquillo. «Sotto questa cupola si sta così bene e l’aria è così profumata! Se lo volessimo, potremmo anche vivere all’esterno degli edifici. Potremmo semplicemente andare in giro nudi, come gli animali.»
Donna si protese verso un animale e gli accarezzò la testa. Oscar rivolse una lunga occhiata alla creatura. A sua volta, l’esemplare ricambiò quello sguardo, senza mostrare paura, con occhi scuri, sporgenti e inespressivi come una tavoletta ouija. Il processo di deferalizzazione, un ramo della fiorente ricerca neurologica del Collaboratorio, aveva ridotto tutti gli animali del luogo in uno stato stranamente alterato di ottundimento della volontà.
Quel particolare esemplare aveva l’aspetto vivace e in piena salute dei modelli sulle scatole di cereali; le sue zanne non avevano carie, il suo pelo irto era liscio, sembrava esse stato appena spazzolato. Tuttavia, Oscar ebbe la netta sensazione che quell’animale avrebbe provato un enorme piacere nell’ucciderlo e nel divorarlo. Sicuramente l’animale doveva avere provato quell’impulso primario durante la loro breve conoscenza, ma, in qualche modo, aveva perso la volontà di attuarlo.
«Per caso conosci il nome di questa creatura?» chiese Oscar.
Donna diede un colpetto sul muso lungo e rugoso dell’animale. Quello grugnì, in estasi e sporse un’orrenda lingua grigia. «Forse è un maiale?»
«No, non è un maiale.»
«Be’, qualsiasi cosa sia, credo di piacergli. È tutta la mattina che mi segue. È carino, no? È brutto, ma è brutto in modo piacevole… Qui gli animali non fanno mai del male a nessuno. Gli scienziati hanno fatto loro qualcosa di strano al cervello.»
Читать дальше