Margaret Weis - Ambra e ferro

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La vita sul mondo di Krynn è in rapida evoluzione e persino gli dei ne rimangono sconcertati. Che dire allora dei mortali? Di fronte a forze apparentemente invincibili, una piccola ma determinata banda di avventurieri pone in atto un disperato tentativo di arrestare un’invasione. Mina, enigmatica come sempre, riesce a fuggire dalla sua prigione sottomarina e parte per una ricerca che metterà a dura prova la sua forza di volontà, mentre il male sembra diffondersi inesorabilmente...

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Il Signore della Morte non disse nulla.

In senso metaforico, Krell prese a sudare.

«Mio signore Chemosh», supplicò. «Vi ricompenserò. Vi sarò debitore per sempre. Farò qualunque cosa mi ordinerete. Qualsiasi cosa! Risparmiatemi la vostra collera!»

Chemosh sospirò. «Sei fortunato perché ho bisogno di te, disgraziato miserabile. Alzati in piedi! Mi goccioli sugli stivali.»

Krell si alzò in piedi ponderosamente. «Mi salverete anche da lei?» Spinse il pollice verso il cielo per indicare la dea vendicativa. La furia di Zeboim illuminava il cielo, il suo pugno tonante martellava il terreno.

«Ritengo di esserne costretto», disse Chemosh, e sembrava letargico, troppo sfinito per curarsene. «Come ho detto, ho bisogno di te.»

Krell era a disagio. Non gli piaceva il tono del dio. Azzardandosi a osservare più da vicino, il cavaliere della morte rimase sbalordito da ciò che vide.

Il Signore della Morte appariva peggiore della morte. Si poteva dire che paresse vivo: vivo e sofferente. Aveva il volto pallido, tirato e smunto. Aveva i capelli scarmigliati, gli abiti trasandati. Il pizzo sulla manica era strappato e macchiato. Il colletto era slacciato, la camicia mezzo aperta. Gli occhi erano assenti, la voce cupa. Chemosh si muoveva in maniera languida, come se perfino sollevare la mano gli costasse un grande sforzo. Anche se parlava con Krell, non sembrava realmente vederlo né avere grande interesse per lui.

«Mio signore, che cosa c’è che non va?» domandò Krell. «Sembrate non star bene...»

«Io sono un dio», ribatté con durezza Chemosh. «Io sto sempre bene. Tanto peggio.»

Krell poteva solo immaginare che vi fosse stata qualche sconfitta decisiva nella guerra.

«Nominate il vostro nemico, mio signore», disse Krell, ansioso di compiacerlo, «colui che vi ha fatto questo. Io lo troverò e lo sventrerò...».

«Il mio nemico è Nuitari», disse Chemosh.

«Nuitari», ripeté a disagio il cavaliere della morte, già pentito di quella promessa avventata. «Il Dio della Luna Nera. Perché lui, in particolare?»

«Mina è morta», disse Chemosh.

«Mina è morta?» Krell stava per soggiungere: «Che liberazione!». Ma si rammentò appena in tempo che Chemosh era stato stranamente innamorato di quella femmina umana.

«Sono davvero spiaciuto, mio signore», si corresse Krell, cercando di apparire pieno di commiserazione. «Come è avvenuta questa... ehm... terribile tragedia?»

«Nuitari l’ha assassinata», disse malevolo Chemosh. «La pagherà! Tu gliela farai pagare!»

Krell si allarmò. Nuitari, il potente dio della magia nera, non era proprio il nemico che lui avesse in mente.

«Certo, mio signore, ma io sono sicuro che voi vorrete vendicarvi voi stesso su Nuitari per la morte di Mina. Forse io potrei cercare vendetta su Chislev o su Hiddukel? Erano sicuramente coinvolti nel complotto...»

Chemosh fece scattare un dito, e Krell volò all’indietro schiantandosi contro la parete di pietra. Scivolò giù per la parete e finì disteso con l’armatura ammucchiata in disordine ai piedi del Signore della Morte.

«Rospo piagnucoloso, codardo e viscido», disse freddamente Chemosh. «Farai quello che io ti dirò di fare, altrimenti ti trasformerò in quel mollusco senza spina dorsale che sei e ti consegnerò con i miei omaggi alla dea del mare. Che ne diresti?»

Krell mormorò qualcosa.

Chemosh si chinò. «Non ti ho sentito.»

«Come sempre, mio signore», disse cupo Krell. «Sono ai vostri ordini.»

«Mi pareva proprio», disse Chemosh. «Adesso vieni con me.»

«Non... non a far visita a Nuitari?» disse tremante Krell.

«Nella mia dimora, sciocco», disse Chemosh. «C’è una cosa che devi fare per me prima di tutto.»

Avendo deciso di assumere un interesse più attivo per il mondo dei vivi con la prospettiva di regnare un giorno su quel mondo, il Signore della Morte aveva lasciato il suo palazzo tenebroso sul piano dell’Abisso. Aveva cercato una posizione opportuna per la sua nuova dimora e l’aveva trovata in un castello abbandonato prospiciente il Mare di Sangue nella zona chiamata Desolazione.

Quando il drago dominatore Malys assunse il controllo di questa parte di Ansalon, devastò la campagna, distruggendo campi e terreni coltivati, città e villaggi e metropoli. La terra fu maledetta fintanto che quella femmina di drago rimase al potere. Non crebbe più niente. Fiumi e torrenti si prosciugarono. I campi un tempo fertili divennero deserto spazzato dal vento. Si diffusero inedia e malattie. Le grandi città come Flotsam persero gran parte della popolazione poiché la gente fuggiva dalla maledizione del drago. L’intera zona venne chiamata Desolazione.

Con la morte di Malys per mano di Mina, i terribili effetti della magia malvagia del drago sulla Desolazione si invertirono. Quasi dal momento stesso della dipartita di Malys, i fiumi presero a scorrere e i laghi a riempirsi. Germogli verdi spuntarono dal suolo brullo, come se la vita fosse rimasta lì per tutto quel tempo, aspettando solo che venisse rimosso l’incantesimo che la teneva prigioniera.

Col ritorno degli dèi, questo processo si accelerò, cosicché alcune zone erano quasi tornate alla normalità. La popolazione ritornò e incominciò a ricostruire. Flotsam, ubicata a quasi duecentocinquanta chilometri dal castello di Chemosh, non era proprio il centro indaffarato e gaio di commerci (leciti e illeciti) che era stata un tempo, ma non era più una città fantasma. Pirati e marinai legittimi di tutte le razze vagavano per le strade della famosa città portuale. Mercati e botteghe riaprirono. Flotsam era di nuovo in piena attività.

Vaste zone della Desolazione restavano però ancora maledette. Nessuno sapeva immaginarsi né il come né il perché. Una druida devota a Chislev, dea della natura, stava esplorando queste zone quando si imbatté in una squama di Malys. La druida ipotizzò che la presenza della squama avesse a che fare con la prosecuzione della maledizione. Bruciò la squama in una cerimonia sacra, e si dice che la stessa Chislev, turbata da questo sconvolgimento della natura, avesse benedetto la cerimonia. La distruzione della squama non fece nulla per modificare le cose, ma la storia si diffuse e l’ipotesi prese piede, per cui queste zone maledette vennero chiamate «caduta di squame».

Una di queste zone di caduta di squame fu rivendicata come propria da Chemosh. Il suo castello sorgeva su un promontorio prospiciente il Mare di Sangue su quella che veniva chiamata Costa Tenebrosa.

Chemosh non si curava di quella maledizione persistente. Non aveva alcun interesse per la crescita di roba verde, per cui gli importava poco che le colline e le valli attorno al castello fossero distese spoglie, brulle e deserte di terreno cenerino e pietra bruciacchiata.

Il castello di cui si impadronì era in rovina quando lui lo trovò, poiché il drago aveva ucciso gli occupanti e raso al suolo e incendiato il castello. Chemosh aveva scelto questa ubicazione perché si trovava ad appena un’ottantina di chilometri dalla Torre del Mare di Sangue. Aveva l’intenzione di usare il castello come base operativa, progettando di conservare qui gli oggetti sacri che avrebbe asportato dalle macerie della Torre. Qui, si era immaginato appassionatamente, avrebbe trascorso del tempo a classificare, catalogare e calcolare il valore immenso degli oggetti sacri risalenti all’epoca del Re-Sacerdote di Istar.

Il castello non sarebbe servito soltanto da deposito di oggetti sacri ma anche da fortezza per sorvegliarli. Utilizzando pietre scavate nell’Abisso dalle anime perdute, Chemosh ricostruì il castello, rendendolo tanto forte che nemmeno gli dèi avrebbero potuto attaccarlo. La roccia dell’Abisso era più nera del marmo nero e ben più dura. Soltanto la mano di Chemosh poteva sagomarla in blocchi, e tali blocchi erano così pesanti che soltanto lui poteva sollevarli per sistemarli in posizione. Il castello fu costruito con quattro torri di guardia, una su ciascun angolo. Lo cingevano due muri, uno interno e uno esterno. La caratteristica più singolare di questo castello era che non vi erano porte per penetrare nelle mura. Sembrava non esserci né via d’ingresso né via d’uscita.

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