Oltre il frangiflutti di pietra si estendevano dune di sabbia. In cima il terreno si appiattiva. Probabilmente c’era una strada lassù, una strada che conduceva al castello. Mina avanzò di un passo, diretta verso le dune, e capì subito che quella era la strada sbagliata. Si era persa, non aveva idea di dove si trovasse né di dove stesse andando.
Mina cambiò direzione, ritornando verso i dirupi, e le ritornò la sensazione di trovarsi in un luogo familiare. Proseguì, lasciandosi alle spalle le dune di sabbia e arrampicandosi sul terreno disseminato di pietre, fermandosi ogni tanto per guardare i dirupi, cercando di individuare un’apertura.
Non vedeva niente ma adesso confidava di puntare nella direzione giusta, e proseguì. Era ulteriormente convinta dalle tracce sul terreno indicanti che di recente qualcun altro era venuto da questa parte prima di lei. In un tratto sabbioso vide l’impronta di uno stivale: uno stivale estremamente grande.
Mina incominciò a pensare che avrebbe dovuto portare con sé un’arma. Continuò a camminare, muovendosi con maggiore cautela e tenendo aperti gli occhi e gli orecchi.
La grotta si rivelò tanto ben nascosta che lei la oltrepassò senza saperlo. Solo quando il passo successivo le diede la sensazione deprimente di essersi persa Mina si rese conto di non avere visto il segnale. Si girò e fissò la parete del dirupo, e ancora non riusciva a trovarla.
Finalmente si avventurò attorno a un grosso mucchio di pietre e lì vi era l’ingresso della grotta, mezzo sepolto da una frana. In precedenza la grotta doveva essere stata interamente sepolta, si rese conto Mina, avventurandosi nelle sue vicinanze. Vedeva che i detriti erano stati rimossi, accumulati sui due lati. Quel lavoro era stato fatto di recente, a giudicare dall’apparenza. Il terreno sotto la frana era ancora umido.
Mina si fermò all’esterno della grotta. Adesso che l’aveva raggiunta, esitava a entrarvi. Era il luogo ideale per un’imboscata, non visibile dalle mura del castello. Nessuno avrebbe potuto vederla né udirla se avesse avuto bisogno di aiuto. Si rammentò della grande impronta di stivale. Era tre volte le dimensioni del suo piede.
Portando la mano alle perle, Mina ne percepì il calore rassicurante. Era arrivata fin qui, rischiando l’ira del suo signore. Ora non poteva tornare indietro.
L’ingresso era abbastanza grande da consentire l’accesso a due uomini dalle spalle larghe, ma la volta era bassa. Mina doveva chinare la testa e le spalle per incunearsi all’interno. Si stava chinando quando, da qualche parte lì dentro, udì l’abbaiare di un cane.
A Mina per l’emozione si accelerò il battito cardiaco. La paura scomparve. Il monaco era stato nell’occhio della sua mente fin dal loro incontro. Il suo volto era chiaro; Mina avrebbe potuto dipingerne il ritratto. Vedeva il viso di lui: scolpito, smunto. Gli occhi: grandi e calmi come l’acqua scura. La veste arancione: il colore sacro a Majere, decorata con l’emblema della rosa del dio, che gli pendeva dalle spalle magre e muscolose; la veste era allacciata attorno alla vita sottile. Ogni suo movimento, ogni sua parola: controllati e disciplinati.
E il cane, bianco e nero, che guardava al monaco come a un padrone.
«Grazie, maestà», disse sottovoce Mina e sollevò le perle alle labbra e le baciò.
Quindi entrò nella grotta.
Ausric Krell, muovendosi silenzioso e furtivo, seguiva Mina a distanza con discrezione. Sorprendentemente Krell sapeva muoversi silenzioso e furtivo, quando voleva. Al cavaliere della morte non piaceva procedere a passi felpati come qualche viscido ladro dei bassifondi. Krell si divertiva ad avanzare sferragliando nella sua armatura. L’acciaio cigolante significava morte, infondeva terrore in coloro che lo udivano arrivare. Ma se necessario sapeva camminare cauto. Al pari della sua vita, la sua armatura era del materiale della magia maledetta, e anche se lui era legato per sempre alla sua armatura poteva farla risuonare e sferragliare oppure no, a suo piacimento.
Krell avrebbe sacrificato ben di più per poter scaraventare Mina giù da quell’alto trespolo su cui si trovava e da cui lo scherniva.
Mina non aveva mai tenuto segreto il fatto che lo disprezzava per avere tradito Lord Ariakan. Non solo, lei aveva prevalso su di lui in combattimento e l’aveva umiliato davanti al Signore della Morte. I Prediletti non avevano alcun rispetto per Krell, neanche quando lui li faceva a pezzi, ma bastava che Mina agitasse il mignolo e loro le facevano le feste e gridavano il suo nome.
Krell avrebbe potuto ucciderla subito, ma sapeva che non se la sarebbe mai cavata. Chemosh l’avrà anche guardata con occhio torvo imprecando contro di lei, ma continuava a saltare nel suo letto ogni notte. E poi c’era Zeboim, arcinemica di Krell, che la colmava di doni. Zeboim si sarebbe potuta risentire se Krell avesse assassinato la sua pupilla, e pertanto il cavaliere della morte doveva trattenersi, agire subdolamente. Un compito difficile, ma l’odio può smuovere le montagne.
Adesso tutto ciò che doveva fare Krell era cogliere Mina in un atto di tradimento. Sapeva per triste esperienza che cosa avveniva quando si faceva arrabbiare un dio, e Krell si divertiva, mentre la seguiva, a immaginarsi in dettagli vividi il tormento che Mina avrebbe subito. È sorprendente quanto a lungo si possa vivere dopo essere stati sbudellati.
Quando vide Mina entrare nella grotta, Krell saltò alla conclusione che lei avrebbe incontrato un amante. Avvicinandosi di soppiatto, Krell provò una soddisfazione immensa nell’udire la voce profonda di un uomo. Rimase piuttosto sconcertato nell’udire anche quella che sembrava in modo sospetto la voce acuta di un kender, ma Krell era di larghe vedute. Quello che più ti aggrada era sempre stato il suo motto.
Strofinandosi con gioia le mani guantate, si spostò guardingo verso l’ingresso, sperando di udire più chiaramente. Scoprì, con delusione, che i suoni provenienti dalla grotta erano attutiti e indistinti. Krell non se ne preoccupò. Non importava che cosa avvenisse veramente lì dentro. Poteva sempre inventarsi qualcosa. Il geloso Chemosh sarebbe stato lesto a credere il peggio. Krell si acquattò fuori della grotta e attese che Mina ne riemergesse.
A bordo della nave dei minotauri Rhys perse ogni senso del tempo. Il viaggio attraverso le onde sferzanti della notte, sballottato dalle tempeste della magia, pareva infinito. Il vento gemeva tra il sartiame, le vele erano gonfie. La nave sbandava precariamente. Il capitano ruggiva, e l’equipaggio acclamava e urlava al vento la propria sfida.
Quanto a Rhys, trascorse la notte buia in preghiera. Rhys aveva abbandonato il suo dio, ma il suo dio si era rifiutato di abbandonare lui. Rhys si inginocchiò sul ponte, con la testa china per la vergogna e la contrizione, le guance bagnate di lacrime, mentre chiedeva umilmente perdono al dio. Anche se la notte e quel viaggio spettrale erano terribili, lui era in pace.
Spuntò l’alba. La nave uscì dal mare della magia e si depositò sull’acqua calma. Il minotauro capitano trascinò fuori dalle casse il kender tremante e il cane accasciato e li consegnò all’equipaggio. Guardò giù verso Rhys, che era ancora inginocchiato sul ponte.
«Stavi pregando, presumo», disse il capitano facendo con la testa un cenno di approvazione. «Ebbene, fratello, le tue preghiere hanno trovato risposta. Hai superato la notte incolume.»
«Davvero, signore», disse Rhys con tranquillità, e si alzò in piedi.
I minotauri li spinsero ruvidamente nella scialuppa, quindi vogarono per condurli a un approdo sconosciuto. Rhys guardò giù l’acqua del mare che aveva il colore del sangue. Guardò il sole che sorgeva dal mare, e di colpo capì. Durante quella notte tumultuosa, la loro nave aveva viaggiato nel tempo e nello spazio. Adesso si trovavano sull’altro lato del continente.
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