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Tanith Lee: Non mordere il sole

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Tanith Lee Non mordere il sole
  • Название:
    Non mordere il sole
  • Автор:
  • Издательство:
    Libra
  • Жанр:
  • Год:
    1978
  • Город:
    Bologna
  • Язык:
    Итальянский
  • Рейтинг книги:
    3 / 5
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Non mordere il sole: краткое содержание, описание и аннотация

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Esiste una città dove l’utopia si è realizzata. Può essere un paradiso, per una vita lunghissima, un paradiso nel quale ognuno è curato e accudito da robot perfetti, dove ogni giovane è jang, e può fare tutto quello che vuole… suicidarsi per un numero infinito di volte, cambiare il proprio corpo, cambiare sesso, giocare con la vita e avere tutto a disposizione. Ma c’è una persona, in questa città, che non riesce a trovare la felicità in questo genere di vita. Prevalentemente donna, giovane e irresistibile, vive la propria esistenza tra mille inquietudini, insieme ai suoi compagni e alle sue compagne. Nella città, però, manca qualcosa… qualcosa che Si può trovare forse nel mondo esterno, quella distesa temuta di vulcani che viene attraversata soltanto a bordo di veicoli corazzati, o che può esistere nella possibilità di avere un figlio, anche se ognuno deve decidere se di quel figlio sarà madre o padre… Un libro straordinario, che nessun altro autore avrebbe mai saputo concepire, e che è stato accolto dalla critica e dal pubblico americani come la rivelazione di uno straordinario talento, quello di Tanith Lee, una scrittrice capace di spaziare dall’epica classica alla geniale inventiva sociologica con una facilità e un talento che lasciano sbalorditi.

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Quando mi lasciarono un po’ in pace mi feci portare da uno dei robot il bianco corpo peloso e inerte del bestiolino. Fissai i suoi occhi arancione, vitrei. Sembrava così pieno di beatitudine, nella morte.

«Voglio un avioplano per tornare in città,» dissi al Glar. «Subito.»

Bene, era fin troppo contento di sbarazzarsi di me, perciò ne chiamò uno, e io salii a bordo e tornai a casa, fissando i finestrini coperti, con il bestiolino sulle ginocchia. Non c’era più niente da vedere, comunque. La fioritura del deserto non resiste per più di un unit. Lo splendore che avevo attraversato stava già morendo.

A Quattro BEE andai subito al Limbo.

«Questo è il mio bestiolino,» dissi, «per me è molto importante. Voglio che gli diate un corpo nuovo.»

Ma quelli non vollero, e io sapevo che non avrebbero voluto. Tentarono di spiegare che c’erano ragioni morali.

«Non possiamo far questo per un animale,» dissero. «E poi, è morto da troppo tempo.» Ma questa era solo una scusa. Oh, spero che fosse una scusa.

Perciò andai a casa sola. E anche là fui sola.

E sognai per tutta la notte il deserto e il sole che non dovevo mordere, e finalmente capii il significato che aveva per me quel proverbio. Ero così stanca che adesso potevo ammetterlo. Avevo tentato tante volte, con tanto slancio, e non era servito a nulla.

Il sole. Oh, sì, il sole. Un pezzetto di argilla fragile mi aveva sconfitta all’improvviso, dal suo nido in un deserto d’arcobaleno e d’eruzione di fuochi. Sapevo cos’era il sole; forse quella scritta l’intendeva nello stesso senso, ma non ne sono sicura. Il sole era il Modo Ordinato di Vivere. Nel mio caso era il Modo Ordinato di andare all’ipnoscuola, di essere Jang, di diventare una Persona Anziana, tutta una vita tracciata irrevocabilmente, persino la morte non era permessa, era soltanto un corpo nuovo, o un lungo riposo in un crepuscolo che oscurava la mente, dopo di che il ciclo ricomincia ancora, quando sono stati cancellati tutti i ricordi del passato. Così irrevocabile, così inevitabile, così terribile, così noioso, così votato alla tragedia che era persino troppo piccolo, troppo opaco per essere veramente una tragedia. Non mordere il sole, ti brucerai la bocca. Io avevo morso continuamente, disperatamente, ed ero bruciata, ero bruciata. Ero una brace spenta.

Sapevo ciò che mi stava succedendo e ripetei a voce alta:

«Il bestiolino mi ha escluso ufficialmente dal suo circolo.» Poi capii che avevo obbedito alle regole e che ero libera di piangere.

PARTE QUINTA

1.

Rimasi a casa per quasi un decimo di vrek , immersa in una sorta di stupore. Probabilmente, piansi quasi sempre. Quando cominciai a venirne fuori, la prima cosa che notai fu che mi dolevano il naso e gli occhi, e che le mie guance, dove erano scorse le lacrime, erano infiammate. Perciò mi spalmai una lozione calmante, e mi feci impacchi agli occhi, e dopo circa venti split riacquistai almeno un aspetto normale. Poi sentii il suono del segnale dal portico, e accesi l’impagine, e vidi un maschio derisann , dai lunghi capelli e dai baffi color miele, e un corpo bellissimo, abbronzato, snello ed atletico.

«Hergal?» chiesi.

«Sono io, cara,» disse la voce splendidamente modulata, e quel «cara» mi fece capire che non poteva essere altro che Hatta.

«H…Hatta?»

«Sì, cara,» disse il bellissimo, groshing Hatta. «Ho saputo tutto. Mi dispiace moltissimo. Posso entrare?»

Attivai la porta e gli andai incontro. Ci incontrammo nell’atrio dorato, e lui mi appariva così derisann e così rattristato per me che lo abbracciai e ricominciai a piangere da consumarmi gli occhi. Era così buono. È sempre davvero così dolce, Hatta: credo che sia una bontà ossessiva, la sua.

Mi depose su un divano e accese la macchina della ninnananna e la musica supratonale più rasserenante che riuscì a trovare, e poi si sedette e mi cullò delicatamente tra le braccia.

Quando mi sentii un po’ meglio, mi asciugò la faccia. Io restai lì seduta a guardarlo mentre si versava del fuoco-e-ghiaccio, e mi imboccava di piccoli chicchi di zucchero.

«Sei così meraviglioso, Hatta,» dissi, e gli tremarono le mani. «Oh, Hatta,» dissi. «Sposiamoci. Subito.»

Ma lui mi fece sdraiare per quaranta split prima di lasciare che lo ripetessi. Poi disse, sottovoce:

«Sei sicura, ooma ? Proprio sicura?»

«Oh, Hatta,» dissi io, «non fare lo sciocco. Come potrei trovare qualcosa da ridire?»

Lui scosse il capo, ma restò lì e attese paziente mentre io mi facevo un altro impacco alla faccia e mi preparavo. Poi partimmo con il suo avioplano a nolo, e volammo alla Cupola d’Avorio. Promettemmo di fare l’amore esclusivamente quel pomeriggio, e di tornare dopo a pagare, come bisogna fare quando si è nel periodo dell’annullamento.

Poi andammo in una delle grotte sotterranee, tra il verde e le conchiglie e il resto, e facemmo meravigliosamente l’amore. Credo che quando sei sconvolto e ti stai riprendendo da qualcosa di brutto, ricevi meglio. Comunque, fu groshing.

«Oh, Hatta,» sospirai dopo.

Ma lui girò la testa.

«Oh, Hatta, cosa succede?» chiesi. Mi alzai, girai intorno al giaciglio d’alghe sintetiche, e lui era lì disteso, a occhi chiusi, il viso inondato da grosse lacrime. «Hatta, Hatta,» implorai. « Ooma , che c’è?»

«Non capisci,» chiese lui, sottovoce, «che è tutto inutile?»

«Cosa?» chiesi. «Pensavo che mi volessi sposare. Non capisco.»

«No,» disse lui. «No, non capisci, vero?»

«Ma mi è piaciuto moltissimo,» obiettai. «A te no?»

«Oh, sì,» disse. «Mi è piaciuto avere te, mia ooma , e a te è piaciuto avere il mio corpo, il mio nuovo corpo irreale. Io ho amato te , e tu hai amato il mio guscio.»

«Oh, Hatta,» dissi.

Rimanemmo in silenzio, a lungo.

«Ti amo,» disse poi.

«Lo so.»

«E tu ami il mio corpo,» disse lui.

«Sì,» risposi. «E… Hatta, penso che sei così terribilmente caro e derisann e…»

«E non mi ami, vero? Solo l’esterno.»

«Sì,» dissi io.

E Hatta pianse in silenzio.

E io ridiventai tosky.

«Hatta!» urlai. «Senti, non sopporto anche questo, dopo tutto il resto. Sono in un tale caos, non posso sopportare anche il tuo caos. Davvero, mi dispiace, ma se non la finisci diventerò zaradann. »

Hatta si scusò, si alzò, disse che avrebbe pagato l’altra metà della tariffa matrimoniale e se ne andò, lasciandomi l’avioplano.

E quando lo rividi di nuovo, aveva quattro braccia e le scaglie. Povero, povero Hatta. Se almeno avesse potuto imparare a odiare.

2.

Dopo l’episodio con Hatta prenotai la Distorsione dei Sensi. Credo che alla Commissione fosse arrivata notizia delle mie condizioni insolitamente isteriche, perché non dovetti aspettare molto. Mi mandarono persino una piccola nave aerea azzurra e rosa, tutta allegra e gaia, e suonarono una musica gaia e allegra.

«Ah, sì,» dissero quando mi videro e mi condussero via, tenendomi per mano.

Così mi distesi nel soffice cubicolo peloso e attesi di diventare un fiore, e l’ultimo pensiero che ricordo fu: Dove prendono queste pelli? Sono di animali del deserto? E giurai a me stessa di smantellare la stanza delle pellicce, a casa mia.

E poi mi trovai nella foresta immobile, al mattino, sotto un cielo pallido, ed io ero una pianta altissima, e crescevo, con la mente piena di pensieri vegetali. Ricevevo la luce del sole e sentivo che le mie molecole le trasformavano in cellule verdi. Era molto riposante. Fui un fiore per millenni, e avrebbe dovuto farmi bene. Dopo essere stata un fiore, diventai una montagna, e fu una cosa grandiosa. In effetti, credo che mi sentissi un po’ come Assule. Di sicuro, pensai pensieri del tipo che, ci scommetto, pensava lui. Io sono antica e resistente, sono una cosa divina, sono l’eternità. Ignoravo i venti e la sabbia che mi logoravano, la pioggia che mi erodeva, il sole caldo che mi asciugava. Più tardi fui un lago, azzurro e increspato, miglia e miglia, ed è meraviglioso essere così lungo e ampio, e consapevole di ogni spanna di te stesso. Continuavo a scrollarmi dolcemente, per scacciare il sole dalla mia pelle, e ad incoraggiare le mie piante acquatiche, perché crescessero.

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