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Ursula Le Guin: L’isola del drago

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Ursula Le Guin L’isola del drago

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L’Arcipelago di Earthsea è una terra lontana dove la magia è ancora potente e capace di sottili e misteriosi incantesimi che legano (o separano) gli esseri umani e dove, talvolta, giungono i draghi per ricordare a tutti che, nella notte dei tempi, non c’era distinzione tra uomo e drago. E a Gont, una delle isole di Earthsea, vive Tenar, una donna che pur essendo stata l’allieva prediletta del potente Arcimago Ogion, ha sorprendentemente rinunciato ai Poteri della magia per condurre una vita tranquilla accanto all’uomo che ama. Ma quel destino che Tenar ha rifiutato non ha mai cessato di albergare nei ricordi, nei pensieri e nei gesti della donna, e ora ritorna a lei sotto forme diverse e inquietanti: una bambina martoriata nel corpo e nello spirito (ma dotata di immani capacità soprannaturali), un vecchio amico che ha smarrito i Poteri dopo un viaggio nella terra delle Tenebre, l’antico maestro che la chiama per confidarle un segreto che solo lei può comprendere. Tornare sul sentiero che pensava abbandonato per sempre non sarà facile per Tenar, eppure solo lei conosce quel luogo dove — fra streghe, draghi, premonizioni e sortilegi — si deciderà l’esito della lotta tra il giovane e coraggioso re di Gont e le forze delle Tenebre che hanno scagliato contro l’isola una maledizione letale…

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Dalla curva della strada poterono davvero posare lo sguardo sul vasto pendio coperto di foreste e di pascoli, fino alla città e alla baia, e vedere gli scogli che custodivano l’ingresso della baia, e le barche sull’acqua nera, simili a schegge di legno o a insetti acquatici. Molto più avanti, sulla loro strada ma sovrastante, un’enorme rupe sporgeva dal fianco della montagna: il Grande Precipizio, su cui sorgeva il villaggio di Re Albi, che nella lingua del luogo significava il Nido del Falco.

Therru non si lamentò, ma quando Goha le disse: «Allora, possiamo andare?» la bambina, seduta tra la strada e gli abissi del cielo e del mare, scosse la testa. Al sole faceva caldo, e avevano percorso molta strada da quando avevano consumato la colazione nella piccola valle.

Goha cercò nella sacca le loro borracce, e bevvero di nuovo; poi Goha prese un sacchetto di uva passa e noci e lo diede alla bambina.

«Di qui possiamo cominciare a scorgere la nostra destinazione», disse, «e vorrei arrivare prima di sera, se possibile. Sono ansiosa di vedere Ogion. Sei stanca, ma non cammineremo troppo in fretta. E passeremo la notte laggiù, al sicuro e al caldo. Tieni il sacchetto, infilalo nella cintura. L’uva ti darà forza alle gambe. Vuoi anche tu un bastone, come quelli dei maghi, per camminare meglio?»

Therru annui, senza smettere di mangiare. Goha prese il coltello e tagliò un ramoscello robusto di nocciolo per la bambina, e poi, vedendo un ontano caduto vicino alla strada, ne tagliò un ramo e lo ripulì delle foglie per farsi un bastone solido e leggero.

Ripartirono, e la bambina, contenta di poter mangiare l’uva passa, seguì Goha. La donna cantò per far passare il tempo a tutt’e due: canzoni d’amore, canti dei pastori e ballate che aveva imparato nella Valle di Mezzo; ma all’improvviso s’interruppe nel bel mezzo di una strofa. Si fermò e alzò la mano in un gesto d’avvertimento.

I quattro uomini che camminavano lungo la strada davanti a loro le avevano viste. Era inutile cercare di nascondersi fra gli alberi finché non si fossero allontanati.

«Altri viandanti», disse piano a Therru, e riprese il cammino, impugnando più saldamente il bastone di ontano.

Quel che Lodola aveva detto sulle bande di ladri non era la solita lamentela comune a ogni generazione, che le cose non sono più come una volta e che il mondo va a rotoli. Negli ultimi anni la pace e la fiducia, nelle città e nelle campagne di Gont, si erano a poco a poco deteriorate. I giovani si comportavano come stranieri in casa propria, abusando dell’ospitalità, rubando e vendendo poi ciò che avevano sottratto al prossimo. I mendicanti erano diventati molto numerosi, mentre un tempo erano rari; e quando le loro richieste non venivano esaudite, minacciavano. Le donne preferivano non uscire in strada da sole, e male sopportavano questa perdita di libertà. Qualche giovane donna correva a unirsi alle bande di ladri e di cacciatori di frodo. Spesso facevano ritorno dopo pochi mesi, tristi, piene di lividi e incinte. E tra i maghi e le streghe di villaggio si parlava dei guai della loro professione: certe vecchie fatture mediche, che in passato avevano sempre fatto il loro dovere, ma che adesso non riuscivano più a curare le persone; incantesimi di ricerca che non riuscivano più a trovare l’oggetto voluto, o che trovavano quello sbagliato; pozioni amorose che invece di far innamorare gli uomini li spingevano a eccessi di gelosia omicida. E, peggio ancora, dicevano, gente che non sapeva nulla di magia — né le sue leggi e i suoi limiti, né i rischi che si correvano a infrangerli — asseriva di avere il Potere e prometteva ricchezza e benessere ai propri seguaci, e arrivava perfino a garantire l’immortalità.

La magia si era indebolita: Edera, la strega del villaggio di Goha, ne aveva parlato con aria cupa e in modo simile si era espresso Faggio, il mago di Valmouth. Questi era un uomo intelligente e modesto, che era venuto ad aiutare Edera a fare quelle poche cose che potevano alleviare il dolore di Therru per le scottature. Faggio aveva detto a Goha: «Un’epoca in cui succedono cose come questa deve essere un tempo di rovina, la fine di un ciclo. Da quante centinaia di anni non c’è più un re a Havnor? Non può andare avanti così. Dobbiamo ricongiungerci al centro, altrimenti saremo perduti, isola contro isola, uomo contro uomo, padre contro figlio…» L’aveva guardata con una leggera timidezza, ma il suo sguardo era chiaro e intelligente. «L’Anello di Erreth-Akbe è stato restituito alla Torre di Havnor», aveva detto. «So chi l’ha riportato… e quello era certamente il segno che stava per iniziare una nuova epoca. Ma noi non abbiamo accolto quel suggerimento. Non abbiamo re. Non abbiamo centro. Dobbiamo trovare il nostro cuore, la nostra forza. Forse l’Arcimago si deciderà ad agire, finalmente.» E aveva aggiunto, sicuro di sé: «Dopotutto, è di Gont».

Ma non era giunta notizia di iniziative dell’Arcimago, o di un erede salito al trono di Havnor, e le cose avevano continuato ad andare male.

Perciò Goha provò un senso di collera e di rabbia, quando vide i quattro uomini dividersi in due gruppi, uno a ciascun lato della strada, in modo che lei e la bambina dovessero necessariamente passare in mezzo.

E mentre le due donne si avvicinavano ai quattro, Therru si tenne vicina a Goha, con la testa china, ma non le prese la mano.

Uno degli uomini, un tale dal petto ampio, con un paio di baffoni neri che gli coprivano quasi la bocca, cominciò a dire, sogghignando: «Ehi, voi due…» Ma Goha parlò nello stesso momento, e più forte di lui.

«Via dalla mia strada!» gridò, sollevando il bastone di ontano come se fosse quello di un mago. «Devo andare da Ogion!» Passò in mezzo ai quattro uomini e proseguì la strada senza guardarli, mentre Therru trotterellava accanto a lei. Gli uomini scambiarono la sua sfacciataggine per stregoneria, e non si mossero. Forse il nome di Ogion aveva ancora efficacia. C’era del Potere, o in Goha o nella bambina. Quando le due donne si furono allontanate, uno degli uomini disse:

«Le avete viste?» Sputò in terra e fece uno scongiuro.

«Una strega e il suo mostriciattolo», commentò un altro. «Che se ne vadano!»

Un altro del gruppo, un uomo con la giubba e il berretto di cuoio, rimase per qualche istante a fissare le due donne, mentre gli altri riprendevano il cammino e scherzavano sguaiatamente tra loro. Aveva l’aria sconvolta, ma pareva intenzionato a seguire la donna e la bambina, quando l’uomo baffuto lo chiamò: «Sbrigati, Faina!» e lui obbedì.

Non appena giunta alla prima curva, Goha prese in braccio Therru e corse via con lei, finché non fu costretta a fermarsi, senza fiato. La bambina non le chiese alcunché e non le fece perdere tempo. Poi, non appena Goha riuscì a riprendere il cammino, Therru camminò svelta accanto a lei, tenendola per mano.

«Sei rossa», le disse. «Come il fuoco.»

La bambina parlava raramente e in modo poco chiaro, perché aveva la voce molto roca; ma Goha la capiva.

«Sono in collera», rispose, con una specie di risata. «Quando sono in collera, divento rossa. Come voi di pelle rossa, voi barbari delle Terre Occidentali… Guarda, c’è una città davanti a noi, deve essere Fontana delle Querce. È l’unico villaggio su questa strada. Ci fermeremo laggiù a riposare, e forse potrai farti dare un po’ di latte. Poi, se riuscissimo a proseguire, e se pensi di poter camminare sino al Nido del Falco, saremo laggiù prima di sera, mi auguro.»

La bambina annuì. Aprì il sacchetto dell’uva passa e delle noci, e ne mangiò un poco. Continuarono a camminare.

Il sole era già tramontato da tempo quando attraversarono il villaggio e giunsero alla casa di Ogion sul ciglio del Precipizio. Le prime stelle brillavano sopra una massa scura di nubi, a occidente, sull’alto orizzonte marino. Soffiava una brezza di mare che piegava i corti fili d’erba. Una capra belava nel pascolo recintato, dietro la casa piccola e bassa. Dall’unica finestra filtrava una luce giallognola.

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