Patricia Mckillip - La citta di luce e d'ombra

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La citta di luce e d'ombra: краткое содержание, описание и аннотация

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Il principe del regno di Ombria giace sul letto di morte, e già sua zia — una donna spietata che sembra immune al trascorrere degli anni e che tutti chiamano la Perla Nera — assapora il gusto del potere. L’erede al trono, infatti, è ancora troppo giovane per opporsi al volere della zia, mentre il nipote del principe è un artista totalmente disinteressato alle sorti del regno: il suo unico obiettivo è ricreare sulla tela tutto il fascino decadente della città di Ombria. Nessun essere vivente può ostacolare l’ascesa al trono della malvagia Perla Nera… o così sembra.

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Miscelarla era un lavoro lungo e faticoso. Quando ebbero finito, dopo che il distillato fu versato in una bottiglietta e le creature appese ad asciugare, Faey parve aver dimenticato la distrazione della sua assistente. Si gettò su un vecchio divano per innamorati, chiuse gli occhi con un sospiro, li riaprì e annusò l’odore che aveva addosso, disgustata. Troppo stanca per cambiarsi d’abito cambiò il suo intero corpo. Mag, che stava lavando il calderone, vide la lady dalla pelle di porcellana e con gli occhi azzurri trasformarsi in una zingara scalza dagli occhi neri, le cui vesti multicolori le aleggiavano attorno come i petali di un’orchidea.

Faey sospirò ancora. «Così va meglio. Un altro lavoro soltanto, e poi potremo prenderci una pausa.»

Mag stava esaminando il residuo di una terza immagine che si era formata nella sua mente, giusto nell’attimo in cui la sofisticata lady svaniva lasciando emergere la zingara. Lì, entro quel battito di ciglia, le sembrava di aver visto la vera forma di Faey. Ma le parole della maga la distrassero e l’immagine svanì.

«Un altro? Credevo che avessimo finito.»

«Ho avuto una commissione, mentre tu eri di sopra a comprare le interiora d’agnello e gli scarabei assortiti.»

«Qualcuno del palazzo?»

«E chi altro, di questi tempi?» Faey si stava accigliando a causa di qualche odore, nell’aria umida e scura, che neppure le candele profumate accese da Mag potevano nascondere. Lo sguardo intenso che la maga volgeva attorno si adattava male all’aspetto provocante e sensuale del suo volto dalla bocca dipinta.

Mag finì di pulire il calderone in silenzio. Conosceva bene quello sguardo, qualunque fosse il viso che Faey indossasse, e non preludeva a niente di buono.

Mise via il calderone e aspettò. Infine Faey parlò di nuovo, dimenticando di muovere la bocca. «Vai a cambiarti. Non voglio essere disturbata dall’odore dell’incantesimo che hai addosso.»

Mag capì che la sua padrona stava radunando le forze; preparava la mente per il posto in cui avrebbe dovuto andare mentre fabbricava la morte. «Sì, Faey.»

«Poi portami il rospo, quello che tengo nella scatola di cedro. E tutta la cenere che c’è in casa.»

«Sì, Faey», disse ancora Mag, perplessa. Faey si stiracchiò, le indirizzò uno sguardo assente e ritrovò l’uso delle labbra.

«Sai, avevo visto giusto.» Si alzò, e studiò i carboni quasi spenti del cerchio di fuoco sul pavimento. «Ora tocca al bastardo. Ma sbagliavo sull’identità della persona che lo vuole morto.»

Mentre raccoglieva la cenere, prima di lavarsi, Mag pensò al rospo e a come avrebbe potuto funzionare quell’abbinamento. Il rospo sputava veleno, ma in che modo Faey si proponeva di usare la cenere? Con gli occhi della mente rivide Ducon che disegnava la sua figura velata, quella sera al Re degli Incapaci. Un refolo di cenere la fece tossire, e sputò tra le braci spente del focolare di cucina. La cenere , pensò, può essere pressata e trasformata in un carboncino da disegno. Rivide il giovane deporre il carboncino, grattarsi l’altra mano e lasciare strisce nere sulla pelle del polso. Il veleno del rospo sarebbe stato letale, mescolato alla cenere e sparso a quel modo sulla sua epidermide. Lo rivide appoggiare la fronte su una mano e osservare criticamente il foglio, lasciandosi sulle sopracciglia ombre dell’incantesimo di Faey.

Mag deglutì quando vide con fredda chiarezza il sentiero che si biforcava dinanzi a lei. Se avesse preso una diramazione, Ducon sarebbe vissuto; scegliendo l’altra lo avrebbe abbandonato a un destino di morte. Quale delle due? si domandò, senza riuscire a rispondere. Quale delle due?

La vita di quell’individuo, a quanto pareva, era un capolavoro d’ambiguità. Non sapeva di chi era figlio, perciò chiunque avrebbe potuto essere suo padre. Non aveva detto né sì né no ai giovani cospiratori che volevano metterlo sul trono. Perciò non era da escludere che fossero stati loro a ordinare il veleno, colti dall’improvviso timore che lui li tradisse. Ducon aveva trascorso una notte con Kyel senza fargli male, ma a sorvegliarlo c’erano le guardie di Domina Pearl. Kyel aveva richiesto la sua presenza, e Ducon era in apparenza l’unica persona che la Perla Nera non aveva potuto (o voluto) allontanare dal palazzo. Questo andava a vantaggio di Kyel? O della vecchia?

Mag trovò gli altri caminetti abbastanza puliti e dovette raschiare la parte inferiore delle canne fumarie per riempire di cenere il secchio. Poi lasciò il tutto in cucina e andò al pianterreno a lavarsi. Quando si fu cambiata ed ebbe sostituito con il profumo di lavanda quello dei rettili, salì all’ultimo piano della casa, dove Faey teneva i suoi materiali organici, sia vivi che morti. La maggior parte di quelle creature, a sangue freddo e scagliose, sonnecchiava. Lei aprì la scatola di cedro con cautela, perché il rospo, che nel buio andava in ibernazione, se disturbato sputava veleno. Il batrace la guardò con la notte senza luna dei suoi occhi, e le domandò quale delle due?

Lei gli restituì lo sguardo con occhi altrettanto immobili e seppe, senza una ragione chiara e comprensibile, che non avrebbe permesso a Faey di vendere la morte per quel giovane. Non aveva un solo motivo per dare fiducia a Ducon Greve; solo indizi vaghi e insignificanti: il fatto che si spostava così, senza paura dal palazzo alla città, il modo in cui disegnava un viso, il ricordo delle lunghe ore in cui aveva vegliato il bambino per impedire che avesse altri incubi. Chiuse la scatola, lasciando il rospo nel buio. Sarebbe venuto il momento in cui Faey, fidandosi della sua bambola di cera, avrebbe voltato le spalle. Allora Mag avrebbe messo qualcosa nell’incantesimo per guastarlo, oppure, se le fosse stata chiesta una cosa, lei l’avrebbe «distrattamente» sostituita con un’altra. E se ogni sotterfugio fosse fallito, un carboncino era uguale a qualsiasi altro… Quando Faey si fosse accorta che Ducon non voleva saperne di morire, lei avrebbe potuto suggerire l’ipotesi che forse la Perla Nera, per qualche sua ragione, gli aveva dato un antidoto.

«Chi è che lo vuole morto?» domandò a Faey quando tornò nel laboratorio, col secchio in una mano e la scatola del rospo nell’altra.

La zingara che stava frugando nel cerchio di fuoco in cerca di pezzetti di legno non bruciato scrollò le spalle; il largo colletto della lucida blusa di seta le scivolò precariamente su un braccio.

«Un nobile o una dama con una manticora sul suo stemma. Il biglietto non era firmato. Il servo tornerà domani a prendere la pozione, e col resto dell’oro. Raccogli tutta questa roba, mia bambolina di cera, e mettila nel calderone grande.»

Mentre raccoglieva la cenere dal suolo con una paletta Mag domandò, incuriosita: «Perché te ne serve tanta, per fare un oggetto così piccolo?» Non appena ebbe pronunciato quelle parole avrebbe voluto acchiapparle nell’aria come farfalle e tornare a ficcarsele in bocca. Faey le diede uno sguardo simile a quello del rospo, freddo e scrutatore.

«Stiamo pensando, bambolina?»

«È una gran quantità di cenere», si difese Mag, con aria melensa. «Mi è venuto da farmi delle domande.»

«E dove ti portano queste domande?»

«Al carboncino da disegno.»

«E come fai a sapere che Ducon Greve disegna?»

«L’ho visto. Tutti possono vederlo. Va in giro per Ombria facendo schizzi o acquerelli di tutto ciò che gli colpisce l’occhio. Stavo solo cercando di mettere insieme il rospo, la cenere e Ducon.»

Faey mandò dal naso quello che sembrava il grugnito di un cavallo, e attraversò la stanza. «Suppongo di averti incoraggiato io a imparare», ammise. «Pensare può diventare un’abitudine. Ma bada… è un’abitudine pericolosa, e se mi desse dei fastidi questo non mi piacerebbe.»

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