Patricia Mckillip - La citta di luce e d'ombra

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La citta di luce e d'ombra: краткое содержание, описание и аннотация

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Il principe del regno di Ombria giace sul letto di morte, e già sua zia — una donna spietata che sembra immune al trascorrere degli anni e che tutti chiamano la Perla Nera — assapora il gusto del potere. L’erede al trono, infatti, è ancora troppo giovane per opporsi al volere della zia, mentre il nipote del principe è un artista totalmente disinteressato alle sorti del regno: il suo unico obiettivo è ricreare sulla tela tutto il fascino decadente della città di Ombria. Nessun essere vivente può ostacolare l’ascesa al trono della malvagia Perla Nera… o così sembra.

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«Siate prudente», lo consigliò Ducon che gli si era avvicinato. «Lei sta mettendo insieme la sua corte. Nessuno di noi è al sicuro.»

«Io lo sono», rispose Camas. «Lei mi ha chiesto di restare, nelle vesti di tutore del principe, come desiderava Royce Greve.»

«E voi resterete?»

«Per quanto sia strano, con cortigiani così indolenti, il palazzo ha una biblioteca straordinaria. Odierei l’idea di lasciarla. Sto ancora lavorando sulla mia Storia di Ombria. » Fece una pausa, studiando Ducon. «Voglio sperare», disse sottovoce, «che tu non stia progettando qualcosa di stupido».

«Non per il momento. La Perla Nera e io abbiamo raggiunto un compromesso. Io non le farò la guerra, e lei non mi farà ammazzare.»

«Capisco», disse Camas, accigliato. Proprio allora passò Domina Pearl, e lui non disse altro. La donna camminava accanto a Kyel, tenendogli una mano su una spalla. Ducon notò il portamento rigido del bambino, i suoi pugni chiusi. Non avrebbe pianto, e non avrebbe alzato lo sguardo verso di lei. Poco più avanti si voltò a gettare un’occhiata incredula al mausoleo, e Ducon poté vedere meglio il suo volto, pallido e sgomento. Un sasso fece inciampare Kyel. La mano di Domina Pearl s’indurì sulla sua spalla. Lui tenne lo sguardo fisso in avanti e continuò a camminare stancamente giù per la discesa. Rientrato a palazzo avrebbe dovuto fare le prove per l’incoronazione, in programma il mattino dopo.

Anche Ducon era teso. Seguendo il bambino con lo sguardo era percorso da impulsi e idee che non osava mettere in parole, neppure nell’intimità della sua mente. Il tocco leggero e familiare della lunga mano di Camas, appoggiata sulla sua spalla, gli comunicò solidarietà e un avvertimento.

«Non devi darle una scusa per attaccarti», mormorò il tutore.

«Lo so.»

«Il bambino ha bisogno di te.»

Lui respirò a fondo. «Lo so.»

«Promettimi una cosa.» Camas attese finché Ducon incontrò il suo sguardo. La sua voce era un sussurro. «Se deciderai di agire, informami. Prima di fare una mossa o di dire una parola ad altri. Così, se ti succedesse qualcosa, io saprò il perché. Ti conosco da quand’eri bambino, e sarebbe triste vederti sparire e non sapere neanche il motivo.»

Ducon scosse il capo, commosso. «Non ho un’idea coerente nella testa», assicurò a Camas. «A parte quella di prendere carta e carboncino dalla carrozza, e unirmi al resto di Ombria per la veglia in onore di mio zio.» Fece una pausa e strinse le labbra, ripensando al passato. «Lui era buono con me. E con mia madre. Sentirò la sua mancanza.» Nella sua mente si formò un’altra figura, dai lunghi capelli color delle foglie d’autunno, e con le unghie sempre smozzicate. Era possibile che anche lei fosse già morta, tanto completamente era svanita nella notte di Ombria. «Povero Kyel», mormorò.

«Tutti noi sentiremo la mancanza di suo padre.»

«Volete venire con me?»

«Io non ho la tua predilezione per le stradicciole maleodoranti e le taverne dei sobborghi», rispose pacatamente il tutore. «Preferisco trascorrere il pomeriggio in biblioteca, contemplando la storia e il posto che tuo zio ha in essa. Ma credo che Domina Pearl mi ordinerà di provvedere al cerimoniale dell’incoronazione, e di studiarne una versione modificata, adatta a un bambino di cinque anni. Tu sii prudente.»

«D’accordo», promise distrattamente Ducon, e si mescolò alla folla che si stava disperdendo verso le strade della città in cerca di posti adatti alla veglia.

Alcuni tra i nobili e i cortigiani più giovani condividevano la sua passione per i quartieri malfamati di Ombria. Costoro non avevano idea del perché Ducon si fermasse a eseguire schizzi di finestre i cui vetri sporchi e incrinati davano una dimensione indefinita, elusiva, del mondo dietro di essi. Criticavano i suoi disegni, lo seguivano da una taverna all’altra, bevevano con lui finché trovavano ciò che ciascuno di loro cercava, nel fondo del boccale o sul viso di una donna. Poi lo lasciavano andare via da solo, a cercare altre finestre, o vecchi portoni, o passaggi che sembravano infestati da ambiguità spettrali, come se potessero essere attraversati in una sola direzione o verso strane profondità.

Quel giorno una dozzina di nobili rimasero al suo fianco per tutto il pomeriggio, forse perché messi a disagio dall’atmosfera funebre che stagnava sulla città, pensò lui, e si rivelarono noiosamente rumorosi. Non vollero lasciarlo andar via in cerca di ombre. Lo trascinarono da una locanda all’altra, di preferenza quelle dove si beveva birra costosa e vini pregiati, e gli restarono attorno ridendo e schiamazzando, mentre lui buttava giù schizzi di avventori vestiti a lutto e donne velate. Ogni viso che prendeva forma sulla carta sembrava non tanto addolorato per il governante defunto, quanto intimorito per il suo successore. A un certo punto Ducon si chiese se non stesse ritraendo espressioni nate dai suoi pensieri.

Non fece caso al dipinto del goffo individuo che nuotava con assurda goffaggine sulla cresta di un’onda, con la corona d’oro che gli scivolava di traverso e gli occhi sporgenti come tuorli d’uovo. Aveva visto molte volte l’insegna di quella taverna. A quell’ora, sul nebuloso confine tra la notte e il giorno, tutti i locali pubblici gli sembravano uguali, e lui non sapeva più in quale zona di Ombria si trovasse. Si lasciava trasportare dal gruppo di giovani nobili, figli di cortigiani con le mani bucate e parenti alla lontana della sua famiglia, che apparivano solo quando c’erano funerali o incoronazioni. Trascorse un certo tempo in una locanda cercando di mettere su carta il loro grado di parentela con lui, visto che insistevano. Gli era venuto da pensare che il loro vero interesse stava nel grado di parentela che avevano con Kyel, e che molti davano per certo che il giovane principe non avrebbe vissuto a lungo, con quella reggente dagli occhi duri che già deteneva il potere a Ombria. Tutti si stavano chiedendo in che punto questo li avrebbe messi nella linea di successione. Una domanda pericolosa e affascinante, che nessuno comunque osava fare a Ducon.

Lui riconobbe la taverna quando entrarono. Sopra il caminetto c’era un affresco raffigurante una fila di persone che affogavano una dietro l’altra emettendo bolle d’aria dalla bocca corne collane di perle.

La clientela vestiva a lutto anche lì, con un’abbondanza di nastri neri fissati ai berretti e alle maniche, e i discorsi avevano il tono funebre che la lingua assume al termine di una lunga giornata in cui si è parlato di politica senza nessun ottimismo.

«Ombria è tra le fauci del drago», così Ducon udì qualcuno definire la situazione, perché in quel modo Royce Greve li aveva lasciati, sempre che fosse lecito paragonare quella coppia — il bambino e Domina Pearl — a due zanne capaci di stritolare la città.

«Non che Royce Greve abbia mai avuto a cuore le sorti di Ombria. Non come suo padre, comunque. Ma almeno lui costringeva la Perla Nera a fingere di essere onesta, mentre lei armava navi pirate e trafficava con la stregoneria. Ora la vecchia non si prenderà più neppure la briga di fingere.»

L’uomo che aveva parlato alzò il boccale. Ducon lo conosceva di vista: aveva posseduto una flotta di navi mercantili con le quali si era arricchito, fino a qualche anno prima, quando Domina Pearl aveva messo gli occhi su di lui. «Brindiamo a lei!» esclamò. «Alla Perla Nera, e alla ciurma di carogne che ha assoldato per impadronirsi dei moli di Ombria.»

Ducon andò a sedersi all’unico tavolo libero. «Ecco là un uomo morto», commentò.

Un boccale di vino gli apparve davanti magicamente, com’era successo per tutto il pomeriggio. Il giovane lo vuotò per metà, prima di accorgersi che nessuno dei suoi cugini e dei figli dei cortigiani beveva con lui. Non stavano neppure parlando. Erano attorno al tavolo e lo guardavano, con occhi stretti e speculativi. Le loro facce avevano perso l’espressione indifferente o ebbra. A lui parvero quelle di lupi affamati, e si chiese se lo vedessero come un pezzo d’arrosto servito caldo su un piatto.

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