Orson Card - Il settimo figlio

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Alvin Miller è venuto al mondo in un’America in cui bianchi e indiani vivono in pace e George Washington è stato decapitato dagli inglesi. Magie, incantesimi e misteriose potenze negative sono presenze quotidiane e normali in questo “mondo alternativo” Ma Alvin è protetto da tutte le energie positive del Creato, perché, secondo un’antica profezia, “il settimo figlio di un settimo figlio avrà in sé poteri tali da far tremare il mondo”.

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Be’, chiunque non avesse capito che quando papà aveva quell’espressione era meglio togliersi di mezzo, era troppo stupido per vivere. David e Calm erano ben fortunati a potersi rifugiare in casa propria, sulle terre che avevano disboscato, dove le loro mogli avevano già preparato la cena, e potevano scegliere se essere fuori di testa o no. Gli altri non erano altrettanto fortunati. Visto che papà e mamma erano fuori di sé, doveva esserlo anche il resto della famiglia. Le femmine non si erano nemmeno sognate di litigare tra loro, e tutte quante avevano aiutato a preparare la cena e a sparecchiare senza la minima protesta. Wastenot e Wantnot erano usciti a spaccare la legna e a mungere le bestie senza scambiarsi neanche uno spintone, figuriamoci poi fare la lotta, il che per Alvin Junior era stato una vera delusione visto che poi toccava a lui fare la lotta con chi aveva perso, e quegli incontri erano proprio il massimo, perché i gemelli a diciott’anni erano degli ossi duri, nemmeno da paragonare ai ragazzini con cui si azzuffava di solito. E Measure, quello là se ne stava seduto davanti al fuoco a intagliare un grosso cucchiaio di legno per il pentolone di mamma, senza neanche alzare gli occhi… aspettava, aspettava e basta, proprio come gli altri, che papà tornasse in sé e cominciasse a inveire contro qualcuno di loro.

L’unica persona normale della casa era Calvin, che aveva tre anni. Il guaio era che per lui ‘normale’ significava stare alle costole di Alvin Junior come un gattino che ha fiutato il topo. Non si avvicinava mai al punto di giocare con Alvin, o di toccarlo, o di rivolgergli la parola, o qualsiasi altra cosa che avesse un senso. Era lì e basta, sempre lì ai margini delle cose, cosicché quando Alvin alzava lo sguardo vedeva che Calvin l’aveva appena puntato da un’altra parte, o coglieva una fugace visione della sua camicia che scompariva dietro una porta, o qualche volta nel cuore della notte avvertiva il lieve rumore d’un respiro più vicino di quanto avrebbe dovuto essere, e da questo capiva che Calvin non era nel suo letto, ma era in piedi accanto a lui e lo guardava. Ma nessuno sembrava accorgersene. Era trascorso più di un anno da quando Alvin aveva rinunciato al tentativo di farlo smettere. Se Alvin Junior osava dire: «Mamma, Cally mi dà noia», la mamma si limitava a dire: «Al Junior, non ha aperto bocca, non ti ha toccato, e se non ti piace che lui se ne stia fermo e buono come più non si potrebbe, peggio per te, perché a me va benissimo. Non sarebbe male che anche qualcun altro imparasse a stare altrettanto fermo». Alvin pensò che quella sera non era Calvin a essere normale ; era piuttosto il resto della famiglia a essersi adeguato al suo normale livello d’agitazione.

Papà non faceva altro che fissare i pezzi di legno. Di tanto in tanto li accostava nella disposizione originale. Una volta parlò, a voce bassissima. «Measure, sei sicuro di averli presi tutti, i pezzi?»

«Assolutamente tutti, papà» disse Measure. «Non ne avrei potuti raccogliere di più neanche con una scopa. Non ne avrei potuti raccogliere di più neanche se mi fossi chinato a leccarli come un cane».

La mamma ascoltava, si capisce. Papà una volta aveva detto che quando la mamma si concentrava, avrebbe potuto udire uno scoiattolo scoreggiare nel bosco a mezzo miglio di distanza nel bel mezzo di un temporale mentre le ragazze lavavano i piatti e i ragazzi spaccavano la legna. Alvin Junior a volte si chiedeva se ciò non significava che la mamma era più addentro alle arti segrete di quanto non volesse far intendere, perché una volta nel bosco era rimasto seduto per più di un’ora a non più di tre metri di distanza da uno scoiattolo, e non aveva sentito neanche un ruttino.

Stasera comunque la mamma si trovava in casa, e naturalmente udì ciò che papà aveva chiesto, e udì ciò che Measure gli rispose, ed essendo non meno fuori di sé di papà, era saltata su come se Measure avesse appena pronunciato a sproposito il nome del Signore. «Sta’ attento a come parli, giovanotto, perché sulla montagna il Signore disse a Mosè: onora tuo padre e tua madre, affinché siano prolungati i tuoi giorni sopra la terra che il Signore Iddio tuo ti ha concesso, e quando ti rivolgi a tuo padre in maniera insolente non fai altro che sottrarre giorni e settimane e addirittura anni alla tua stessa vita, e la tua anima non è in condizioni tali da far sì che tu possa accogliere serenamente una visita prematura al tribunale nel quale incontrerai il tuo Salvatore e lo udrai pronunciare il suo verdetto per l’eternità!»

Più che per il proprio destino nell’aldilà, Measure era preoccupato dal fatto che sua madre se la prendesse proprio con lui. Non cercò di ribattere che non voleva fare il furbo o essere sfacciato… solo uno stupido l’avrebbe fatto quando la mamma era così su di giri. Cominciò semplicemente a mostrarsi contrito e a implorare il suo perdono, per non parlare del perdono di papà e dell’infinita compassione del Signore. Quando lei ebbe finito di strigliarlo, il povero Measure aveva già chiesto scusa una mezza dozzina di volte, così che alla fine la mamma si decise a tornare brontolando al suo cucito.

Poi Measure guardò Alvin Junior e gli strizzò l’occhio.

«Ti ho visto» disse la mamma, «e se non vai direttamente all’inferno, Measure, inoltrerò una speciale supplica a san Pietro perché ti ci mandi lui».

«La firmerei io stesso» disse Measure, con l’aria contrita di un cucciolo che ha appena fatto pipì sulla scarpa del padrone.

«Fai bene a dire così» proseguì lei, «e la firmeresti col tuo sangue, perché quando avrò finito con te avrai abbastanza ferite aperte da tenere dieci impiegati riforniti di inchiostro scarlatto per un anno intero».

Alvin Junior lottò per trattenersi. Quella tremenda minaccia gli sembrò improvvisamente buffissima. E, pur sapendo che stava scherzando col fuoco, aprì la bocca per ridere. Sapeva che, se l’avesse fatto, la mamma l’avrebbe picchiato sulla testa col ditale, o gli avrebbe dato uno schiaffo su un orecchio, o addirittura gli avrebbe dato con la sua scarpetta un tremendo pestone sul piede nudo, come aveva fatto una volta con David quando questi le aveva detto che avrebbe dovuto abituarsi alla parola no un po’ prima di ritrovarsi tredici bocche da servire in tavola.

Era questione di vita o di morte. Era peggio della trave. Dopo tutto questa non l’aveva neanche sfiorato, cosa che non si sarebbe potuta dire della mamma. Perciò trattenne la risata prima che accadesse l’irreparabile, trasformandola nella prima cosa che gli venne in mente.

«Mamma» disse, «Measure non potrebbe firmare nessuna petizione col suo sangue, perché sarebbe già morto, e i morti non firmano».

La mamma lo guardò diritto negli occhi, poi, scandendo lentamente le sillabe, disse: «Quando glielo dico io, sì».

Be’, fu la goccia che fece traboccare il vaso. Alvin scoppiò a ridere. E questo fece sì che anche metà delle bambine si mettessero a ridere. Il che fece ridere Measure. E finalmente si mise a ridere anche la mamma. Tutti quanti risero, risero fino a non poterne più, fino ad avere le lacrime agli occhi, e la mamma cominciò ad avviare tutti quanti verso il letto, Alvin Junior compreso.

Con tutte quelle emozioni, Alvin Junior adesso si sentiva parecchio su di giri, e ancora non aveva capito che qualche volta tutta quell’eccitazione avrebbe fatto meglio a tenerla sottochiave. Il caso volle che Matilda, la quale a sedici anni si considerava una gran dama, salisse le scale proprio davanti a lui. Tutti detestavano trovarsi in coda dietro Matilda, in qualsiasi circostanza, con quei passetti delicati da damigella. Measure diceva sempre che in una fila avrebbe preferito trovarsi dietro la luna, perché sicuramente sarebbe andata più in fretta. Adesso il viso di Al Junior si trovava proprio all’altezza del fondoschiena di Matilda che ondeggiava a destra e a sinistra, e pensò a quel che Measure aveva detto della luna, e pensò che il fondoschiena di Matilda era rotondo quasi come la luna, e poi gli capitò di chiedersi come sarebbe stato a toccarla , la luna, se sarebbe stata dura come il dorso di uno scarabeo o viscida come una lumaca. E quando a un ragazzino di sei anni che già si sente su di giri salta in testa un’idea del genere, non passano neanche due secondi prima che il suo dito indice affondi in quelle tenere carni.

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