Robert Jordan - Il cuore dell’inverno

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Il cuore dell’inverno: краткое содержание, описание и аннотация

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La sensazione di saidar nella stanza stava cambiando, ma Elayne non aveva modo di capire come ci avesse solo pensato. La luce scemò man mano che le lampade venivano spente. La sensazione dell’abbraccio di Aviendha scemò. Il suono scemò. L’ultima cosa che udì fu la voce di Monaelle. «Rinascerete.» Ogni cosa sbiadì. Lei sbiadì. Lei cessò di esistere. Una sorta di consapevolezza. Non riusciva a pensare a sé stessa, non riusciva a pensare affatto, ma era consapevole. Del suono. Lo sciacquio di un liquido attorno. Muti gorgoglii e rimbombi. E un tonfo ritmico. Più forte di ogni altro suono. Tu-tum. Tu-tum. Non conosceva la contentezza, ma era contenta. Tu-tum.

Tempo. Non conosceva il tempo, ma le Epoche passavano. C’era un suono dentro di lei, un suono che era lei. Tu-tum. Lo stesso suono, lo stesso ritmo dell’altro. Tu-tum. E da un altro posto, vicino. Tu-tum. Diverso. Tu-tum. Lo stesso suono, lo stesso battito, come il suo. Non diverso. Erano lo stesso; erano uno. Tu-tum.

L’eternità passò al ritmo di quella pulsazione, tutto il tempo che era mai esistito. Toccò l’altra che era lei. Poteva percepirla. Tu-tum. Si mosse, lei e l’altra che era lei, contorcendosi l’una contro l’altra, arti che si aggrovigliavano, rotolavano via ma poi tornavano sempre a toccarsi. Tu-tum. C’era luce, alle volte, nel buio; tanto fioca da non consentire di vedere, ma vivida per qualcuno che non aveva conosciuto altro che il buio. Tu-tum. Aprì gli occhi, fissò gli occhi dell’altra che era lei, poi chiuse di nuovo i suoi, contenta. Tu-tum. Cambiamento, improvviso, scioccante per qualcuno che non aveva mai conosciuto alcun cambiamento. Pressione. Tu-tum-tu-tum. Quel battito confortante era più rapido. Pressione convulsa. Ancora. Ancora. Sempre più forte. Tu-tum-tu-tum! Tu-tum-tu-tum!

All’improvviso, l’altra che era lei... non c’era più. Era sola. Non conosceva la paura, ma era spaventata, e sola. Tu-tum-tu-tum! Pressione! Più forte di qualunque altra cosa prima d’ora! Che la stringeva, la stritolava. Se avesse saputo come urlare, se avesse saputo cos’era un urlo, avrebbe strillato. E poi luce, accecante, piena di motivi vorticanti. Aveva peso; non aveva mai avvertito peso prima. Un dolore lacerante al centro di lei. Qualcosa le solleticò il piede. Qualcosa la schiena. Sulle prime non si rese conto che il suono lamentoso proveniva da lei. Scalciò debolmente, agitò arti che non sapeva come muovere. Venne sollevata, appoggiata su qualcosa di soffice, ma più rigido di qualunque cosa avesse sentito prima, tranne i ricordi dell’altra che era lei, l’altra che non c’era più. Tu-tum. Tu-tum. Il suono. Lo stesso suono, lo stesso battito. Regnava la solitudine, non riconosciuta, ma c’era anche contentezza.

La memoria cominciò a tornare, lentamente. Sollevò il capo da uno dei seni di Amys e alzò lo sguardo verso il suo volto. Sì, Amys. Lucida di sudore e con gli occhi stanchi, ma sorridente. E lei era Elayne; sì, Elayne Trakand. Ma c’era qualcos’altro in lei, ora. Diverso dal legame col Custode, ma in qualche modo simile. Più flebile, ma più straordinario. Lentamente, su un collo che traballava incerto, voltò la testa per guardare l’altra che era lei, appoggiata sull’altro seno di Amys. Per guardare Aviendha, i capelli arruffati, il volto e il corpo luccicanti di sudore. Sorridente di gioia. Ridendo, piangendo, si strinsero l’una all’altra e così rimasero come se non avessero intenzione di smettere.

«Questa è mia figlia Aviendha,» disse Amys «e questa è mia figlia Elayne, nate nello stesso giorno, alla stessa ora. Che possano sempre proteggersi a vicenda, aiutarsi, amarsi a vicenda.» Lei rise piano, stanca, con amore. «E ora perché qualcuno non ci porta degli indumenti prima che io e le mie nuove figlie ci congeliamo?»

In quel momento a Elayne non importava morire di freddo. Rimase stretta ad Aviendha fra risa e lacrime. Aveva finalmente trovato sua sorella. Luce, aveva trovato sua sorella!

Toveine Gazai si svegliò ai rumori di un sommesso andirivieni, altre donne che si muovevano in giro, alcune che parlavano piano. Distesa sulla sua branda stretta e dura, sospirò dal dispiacere. Le sue mani attorno alla gola di Elaida erano state solo un piacevole sogno. Questa stanzetta dalle pareti di tela era la realtà. Aveva dormito male e si sentiva smagrita, svuotata. Aveva anche dormito fino a tardi; non avrebbe avuto tempo per la colazione. Riluttante, si scostò di dosso le coperte. L’edificio era stato una sorta di piccolo magazzino, con pareti spesse e pesanti travi sul soffitto, ma non forniva alcun calore. Il suo respiro si condensò e la gelida aria mattutina la raggiunse attraverso la sottoveste prima ancora che i suoi piedi toccassero lo scabro assito. Pur contemplando di poter rimanere a letto in questo posto, aveva i suoi ordini. Il sordido legame di Logain rendeva impossibile disobbedirgli, a prescindere da quanto spesso lei lo desiderasse. Cercava sempre di pensare a lui semplicemente come Ablar o, al peggio, come mastro Ablar, ma quello che le veniva sempre alla mente era Logain. Il nome che l’aveva reso famigerato. Logain, il falso Drago che aveva sbaragliato gli eserciti del suo stesso nativo Ghealdan. Logain, che si era fatto strada attraverso i pochi Altarani e Murandiani con abbastanza fegato da cercare di fermarlo finché non aveva minacciato Lugard stessa. Logain, che era stato domato e in qualche modo poteva incanalare di nuovo, che aveva osato fissare il suo contaminato flusso di saidin su Toveine Gazai. Un peccato per lui non averle ordinato di smettere di pensare! Lei poteva percepire quell’uomo, nei recessi della propria mente. Era sempre lì. Per un istante, chiuse gli occhi a forza. Luce! La fattoria di comare Doweel era sembrata il Pozzo del Destino, anni di esilio e penitenza senza via d’uscita tranne l’impensabile: diventare una rinnegata braccata. A malapena mezza settimana dalla sua cattura, sapeva che non era così. Questo era il Pozzo del Destino. E non c’era modo per fuggire. Rabbiosa, scosse il capo e con le dita si sfregò via dalle gote l’umidità luccicante. No! Sarebbe fuggita, in qualche modo, anche solo per mettere le sue vere mani attorno alla gola di Elaida. In qualche modo.

A parte la branda, c’erano solo altri tre pezzi di mobilio, tuttavia le lasciavano poco spazio per muoversi. Ruppe il ghiaccio nella brocca striata di giallo sopra il lavabo col suo pugnale, riempì la bacinella sbeccata e incanalò per riscaldare l’acqua finché non si levarono dei fili di vapore. Le era consentito incanalare per quello. Quello e nient’altro. In maniera meccanica, si lavò i denti sfregandoseli con sale e soda, poi prese una sottoveste pulita e delle calze dalla piccola cassapanca di legno ai piedi della branda. Lasciò dentro il suo anello, riposto sotto tutto il resto in un borsellino di velluto. Un altro ordine. Tutte le sue cose erano qui, tranne la sua scrivania portatile. Per fortuna, quella era andata perduta quando era stata presa. I suoi vestiti erano su un appendiabiti, l’ultimo pezzo di mobilio della stanza. Scegliendone uno senza guardarlo davvero, se lo mise addosso in modo meccanico, poi si pettinò e si spazzolò i capelli. La spazzola col manico d’avorio rallentò quando si vide davvero nello scadente specchio pieno di bolle del lavabo. Respirando in modo irregolare, appoggiò la spazzola accanto al pettine. L’abito che aveva scelto era di lana finemente intessuta, di un rosso tanto scuro e disadorno da sembrare quasi nero. Nero, come la giubba di un Asha’man. La sua immagine distorta la fissava a sua volta, contorcendo le labbra. Cambiarsi sarebbe stata una sorta di resa. Con fare determinato, afferrò il suo mantello bordato di martora dall’appendiabiti. Quando scostò il lembo di tela che fungeva da porta, all’incirca venti sorelle occupavano già il lungo corridoio centrale fiancheggiato da stanze di tela. Qua e là c’erano alcune che parlavano sussurrando, ma il resto evitava gli occhi delle altre, anche quando appartenevano alla stessa Ajah. Molte mostravano paura, ma era la vergogna che ricopriva la maggior parte dei volti. Akoure, una corpulenta Grigia, stava fissando la mano su cui di norma indossava l’anello. Desandre, una Gialla slanciata, nascondeva la sua mano destra sotto l’ascella.

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