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Michael Marshall: Eredità di sangue

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Michael Marshall Eredità di sangue

Eredità di sangue: краткое содержание, описание и аннотация

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Il seguito di “Uomini di Paglia” prende le mosse dalla fuga di Ward Hopkins, ex-agente della CIA, dal quartier generale del gruppo sovversivo che intende usare ogni mezzo per riportare l’umanità alla sua purezza primitiva. Il leader carismatico del gruppo, il fantomatico Homo Erectus, è ancora in circolazione, e Ward sa che tornerà a braccarlo. Quando, insieme a John Zandt che ha ricevuto una soffiata, Ward si mette sulle tracce del tenebroso fratello, ad attenderlo ci saranno ancora una volta indecifrabili messaggi nascosti in efferati delitti e un mistero che affonda le proprie radici nella storia della fondazione dell’America.

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Dopo due ore stimò di aver percorso appena cinque chilometri, nonostante si fosse inerpicato abbastanza da lasciarsi indietro le betulle e le sanguinelle e da rimanere da solo con abeti e cedri. Su in alto il terreno era sgombro dalla neve, ma era ricoperto di rami caduti e di cespugli che aggredivano i suoi jeans e la sua giacca. Gli alberi erano alti e silenziosi, e crescevano un po’ dove cavolo volevano. Ogni tanto si imbatteva in un torrente. Le prime volte li superava con un semplice salto, ma quando la caviglia cominciò a fargli più male fu costretto a deviare alla ricerca di quei punti dove fosse più facile attraversare. A volte borbottava tra sé, ma per lo più rimaneva in silenzio, risparmiando il fiato. Più procedeva veloce e meno doveva essere accorto. Quando finì la bottiglia, l’abbandonò e proseguì. Dopo un centinaio di metri si rese conto che si era comportato da bestia e tornò indietro per cercarla. Non riuscì a trovarla, e questo fatto gli fece capire che stava facendo le cose nel verso giusto. Via via che aumentava il suo stato di ebbrezza, cresceva anche la sensazione di essersi perduto. Continuava a procedere di buona lena nel folto della foresta. Il tempo speso a consultare le mappe dei Green Trails gli aveva mostrato come in quell’area scarseggiassero perfino le piste per il trasporto del legname, ma sapeva, per l’esperienza fatta in città, che il suo senso dell’orientamento era piuttosto buono. Ma sapeva anche quanto fosse debole, come potesse essere facilmente preda di un impulso capace di condurlo per mano in posti dove non desiderava andare, salvo poi svanire improvvisamente, lasciandolo con le mani sporche di sangue. Ecco perché l’elemento fondamentale era perdersi, perché altrimenti avrebbe cambiato idea. Si sarebbe tirato indietro, avrebbe tergiversato per poi rinunciare e non v’è dubbio che non c’è nulla di più patetico che mandare a puttane il proprio suicidio.

Tom Kozelek era venuto nel Nord-ovest senza altro piano preciso che non fosse il desiderio di essere in un qualunque posto lontano da Los Angeles. Si era trovato, leggermente ubriaco, all’aeroporto di Los Angeles e aveva scelto Seattle perché vi si era recato non molto tempo prima per lavoro e vi conosceva un buon hotel. Ci rimase solo una notte e poi si diresse a est, verso le Cascade Mountains. È una strana regione. Ci sono cime e valli vertiginose, rocce frastagliate che mostrano ogni sfumatura di grigio. Possiede anche un po’ di storia, del tipo: «E poi tagliarono ancora molti e molti alberi». Ma non ci sono molte strade e le montagne sembrerebbero custodire per se stesse ciò che sono: a meno che non si abbia bene in mente dove andare — e non era questo il caso di Tom — si potrebbe facilmente pensare che laggiù non ci sia proprio un posto dove andare. Per due giorni aveva vagato incerto tra piccole e fredde città, passando le serate nelle stanze dei motel con la televisione spenta. Aveva telefonato a quella che un tempo era stata casa sua. E la cosa peggiore è che dall’altra parte avevano risposto. La conversazione con sua moglie e i suoi figli era stata breve e non era degenerata in urla, ma in qualcosa di peggio. Ci sono momenti in cui la ragionevolezza è il colpo peggiore, perché se tutti si comportano da persone adulte e tuttavia il mondo è ancora a pezzi, dove potrai mai andare?

Alla fine trovò un villaggio chiamato Sheffer e ci si sistemò. Sheffer era poco più di una strada principale e cinque traverse che andavano rapidamente a perdersi in mezzo a ripide colline pedemontane soffocate dagli abeti; ma un paio di presuntuosi bed breakfast e una tavola calda hippy con dei buoni biscotti di farina d’avena e cinque copie pressoché intatte de I ponti di Madison County lasciavano intuire che la gente andasse lì di proposito. Lungo la strada principale c’era un piccolo museo della ferrovia chiuso e un tratto di binari in disuso, riconvertito ad asilo per vecchie carcasse di materiale rotabile pittorescamente arrugginito. Era fuori stagione, la città era in letargo e la gente del posto usciva dallo sfondo, togliendosi la muffa dai capelli col pettine.

Quattro giorni prima della sua escursione nei boschi Tom sedeva al bancone del Big Frank’s, il meno anodino dei tre bar del luogo, e osservava la telecronaca di uno sport straniero di cui non capiva le regole. Si sentiva a un tempo agitato e rilassato, perduto com’era all’interno del territorio degli indiani Injun. Aveva quarantatré anni, le sue belle carte di credito e una macchina a disposizione. Non era limitato dalle aspettative o dalla precedente conoscenza di qualcuno: se voleva poteva far finta di chiamarsi Lance e spacciarsi per un ex pilota di caccia diventato milionario con l’e-business; oppure di essere un coreografo jazz-fusion di culto di nome Bewildergob. Nessuno avrebbe mai potuto contraddirlo o preoccuparsi di farlo. Poteva fare qualsiasi cosa desiderasse, ma con ciò arrivò la consapevolezza che non c’era niente che volesse fare. Niente di niente.

Ormai nulla avrebbe potuto fare la differenza: aveva superato il punto di non ritorno.

Bevve fino a che il suo cervello divenne vuoto e freddo. L’idea gli balenò nella testa come se fosse stata una freccia scagliata da un arciere lontano. Si rese conto che c’era un modo per rendere le cose accettabili, se non migliori, per eliminare i problemi. Prese un’altra birra e se la portò a un tavolo in un angolo buio dove valutare più attentamente l’idea che gli era balenata.

Come molte altre persone, aveva già pensato al suicidio in precedenza. Mai seriamente, però: si era sempre trattato più che altro di un’occhiata fugace per rendersi conto che l’idea rimaneva sempre ridicola. Questa volta era differente, non si trattava di un gesto puro e semplice, ma di qualcosa di perfettamente razionale. Dopo tutto la sua situazione non era ancora irrimediabile. Il suo matrimonio era finito, ma non tutte le sue amicizie. Poteva trovarsi un nuovo lavoro, progettare siti web aziendali per qualcun altro, affittare un appartamento, farsi il bucato, comprare un forno a microonde che fosse tutto suo. Nel giro di un anno ogni cosa avrebbe potuto apparirgli del tutto diversa. E allora? Lui sarebbe sempre stato il solito Tom, un eterno procrastinatore privo di qualsiasi talento, lentamente ingrossatosi a causa della metabolica pompa a pedali dell’età. Sarebbe comunque rimasto la persona che lo aveva portato fin lì. La vita faceva già abbastanza schifo così — cosa sarebbe successo se avessero scoperto il resto? Le scelte che desiderava prendere esistevano solamente nel passato.

Allora perché non piantarla? Tracciare la linea di confine. Assorbire la perdita. Sperare che la reincarnazione esista e che le cose vadano meglio la prossima volta.

Perché no? Dopo tutto — perché no?

Continuò a bere fino alla chiusura del bar, poi cercò di fare quattro chiacchiere con i due giovani baristi che lo stavano accompagnando con modi poco garbati verso la porta. Uno dei due ostentava solo noia, l’altro un disgusto appena dissimulato. Tom si rese conto di essere probabilmente non molto più giovane dei loro padri, quasi sicuramente dei montanari dalla mascella quadrata che bevevano un sorso di bourbon o di sour mash, o di chissà che cazzo altro, una volta al mese. La porta fu sprangata alle sue spalle. Mentre barcollava fino al suo motel gli venne in mente che non avrebbe più dovuto preoccuparsi di ciò che gli altri pensavano di lui. Il suo nuovo progetto lo poneva su un livello superiore. Poteva fregarsene tranquillamente. La rabbia gli montò a tal punto che si trascinò di nuovo verso il bar, con l’intenzione di spiegare a quei due figuri che sebbene questo fosse un periodo fantastico per i ragazzi di vent’anni, gli uomini di mezza età non se la passavano poi tanto bene; che un giorno i loro addominali avrebbero potuto cedere, che avrebbero dimenticato come si fa ad amare e che non avrebbero avuto la minima idea di chi fossero. Sentì che questa sarebbe stata una preziosa chiave di lettura per loro. A ogni modo, era l’unica che aveva e desiderava condividerla. Quando arrivò al locale le luci erano spente e la porta chiusa. Bussò per un po’ alla porta, dicendosi che avrebbero potuto essere ancora dentro, ma principalmente perché aveva voglia di qualcosa su cui picchiare. Non passarono più di cinque minuti, e Tom si trovò improvvisamente investito da un fascio di luce. Si voltò e vide un’auto della polizia locale parcheggiata nella strada alle sue spalle. Un tizio dall’aria giovanile e in uniforme era appoggiato al parafango, con le braccia conserte.

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