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Michael Marshall: Eredità di sangue

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Michael Marshall Eredità di sangue

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Il seguito di “Uomini di Paglia” prende le mosse dalla fuga di Ward Hopkins, ex-agente della CIA, dal quartier generale del gruppo sovversivo che intende usare ogni mezzo per riportare l’umanità alla sua purezza primitiva. Il leader carismatico del gruppo, il fantomatico Homo Erectus, è ancora in circolazione, e Ward sa che tornerà a braccarlo. Quando, insieme a John Zandt che ha ricevuto una soffiata, Ward si mette sulle tracce del tenebroso fratello, ad attenderlo ci saranno ancora una volta indecifrabili messaggi nascosti in efferati delitti e un mistero che affonda le proprie radici nella storia della fondazione dell’America.

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Sembrava vicino ai sessanta. I capelli grigi, che davano l’idea di essere stati tagliati di recente, erano appiattiti sulla testa. La faccia e le mani avevano un colore poco attraente. Avevano perso la tinta naturale di un tempo e adesso esibivano una tavolozza di colori che variava dal blu a un rosa acceso che in alcuni punti sfumava in una tonalità marrone-porpora che non riuscivo a definire. Un profondo taglio attraversava il collo dell’uomo fino a raggiungere il suo orecchio sinistro: il coltello ne aveva asportato una parte, dando all’uomo un aspetto sbilenco. Anche il labbro superiore mancava. Dal corpo proveniva anche un certo odore, ma non era insopportabile. Aveva fatto molto freddo ed era stato molto secco.

Ora che eravamo più vicini, il tutto aveva assunto un aspetto un po’ più prosaico. Quello non era più un fantasma, ma solo un corpo. A nessuno fa piacere vedere un cadavere, ma è certo meglio che vedere un fantasma. I fantasmi ti fanno dubitare di ogni cosa e lo fanno in una parte della mente che non ha parole per rispondere alla domanda, dove le confortanti promesse che ci si fa non sono credute e nemmeno comprese appieno.

Zandt girò attorno al corpo dell’uomo. Teneva il suo palmare puntato verso la faccia dell’uomo e cominciò a scattare delle foto. «Guarda,» disse.

Feci il giro, tenendomi però ben distante come se temessi che il cadavere potesse riprendere a muoversi, continuando la sua avanzata attraverso il pianoro. Una lastra di metallo, lunga circa un metro e mezzo e spessa forse cinque era stata conficcata nel terreno alle spalle dell’uomo. Il corpo era stato legato e sistemato in una posizione eretta tale da dare l’impressione che stesse camminando. Col tempo il corpo si sarebbe afflosciato, i vestiti si sarebbero consumati e la sbarra avrebbe fatto la ruggine.

«Cristo,» dissi. Zandt si limitò ad annuire, apparentemente senza idee sull’accaduto. Mise una mano nelle tasche della giacca e dei pantaloni dell’uomo, ma non trovò nulla.

Mi allontanai da quella figura. Nei momenti in cui la nebbia si diradava e si alzava, si poteva notare come la posizione del corpo fosse stata scelta con cura. Risultava per così dire protetto dalla collina, e sarebbe stato impossibile vederlo se non stando proprio lì, in un posto dove non esisteva ragione alcuna di trovarsi.

Zandt volse lo sguardo lontano, a quello che riusciva a scorgere del pianoro.

«Ha detto che ce n’erano due.»

«Fantastico, così abbiamo qualcosa da cercare ansiosamente.»

«Non ha detto dove.»

Feci un cenno all’uomo che camminava. «Suppongo che avesse previsto di andare da qualche parte.»

Procedemmo nella direzione verso cui era rivolto il corpo e dopo una cinquantina di metri cominciammo a sentire, più che a vedere, il crinale di un altro canyon. E poi vedemmo qualcosa.

Era seduta proprio sull’orlo. Aveva all’incirca la stessa età dell’uomo, ma non era facile essere più precisi, visto lo stato in cui versava la sua pelle. I gomiti erano appoggiati sulle ginocchia e le mani erano disposte come ad accogliere il viso. La posa era naturale, presumibilmente ottenuta prima che il corpo si irrigidisse. L’unica nota stonata erano i capelli, perché formavano degli ammassi disordinati. Si sarebbe detto che i corvi l’avessero scoperta e avessero cominciato con il loro lavoro, ma che poi si fossero interrotti. Forse anche loro avevano dei limiti. Ora la donna era semplicemente seduta e guardava con gli occhi infossati.

Sembrava… Non so cosa, non avevo veramente un termine di paragone. Mi girai prima che la donna si potesse voltare e vedermi. Se l’avesse fatto, non avrei mai potuto lasciare quel posto.

Zandt scattò solo due fotografie, poi registrò la posizione. «Okay,» disse con calma. «Usciamo da qui.»

Lo seguii mentre si allontanava dalla donna. Non so di preciso cosa stessi provando, non ero sicuro di quale fosse il significato di un gesto simile. Aveva sicuramente un significato. Perché farlo, altrimenti?

Mi fermai e guardai indietro verso la donna. C’era qualcosa nel modo in cui era stata sistemata che mi tormentava.

«Ward, muoviamoci, diventerà buio presto.»

Ignorai le sue parole e tornai verso di lei. Mi abbassai avvicinandomi il più possibile e guardai nella direzione verso cui era rivolta. La sua testa era piegata leggermente in avanti, come se stesse guardando giù nel canyon.

Desideravo tornare in macchina almeno quanto Zandt. In quel momento il Rooney’s Lounge sembrava un buon posto dove stare. E persino il centro commerciale di Yakima, all’occorrenza.

Non fu cosa facile scendere nel canyon. Cominciai la discesa con la faccia rivolta a valle, ma ben presto dovetti voltarmi e aiutarmi con le mani. Sentii Zandt sopra di me che imprecava e che subito dopo cominciava a seguirmi; per mia fortuna ebbe l’accortezza di scegliere una linea di discesa distante qualche metro da me, così che le pietre smosse da lui cadessero lontano.

Una volta arrivato in fondo non riuscii a vedere granché. L’aspetto era lo stesso della cima, forse più roccioso, con un po’ più di vegetazione e qualche albero monco. La nebbia stava diradandosi, calando da qualche altra parte mentre il cielo diventava di un blu più intenso. Poi vidi che più avanti c’era una minuscola rientranza, reminiscenza di un corso d’acqua più piccolo. Lo risalii per un breve tratto e fui sorpreso nello scoprire che si trasformava in una vasta area aperta. Mi trovavo ancora all’ingresso della zona quando Zandt mi raggiunse, rivolgendo lo sguardo a una forma voluminosa dissimulata sotto un affioramento roccioso.

All’inizio fu difficile indovinare cosa fosse.

Poi riuscimmo a capire che si trattava dell’angolo di un piccola costruzione, che poggiava proprio sulla parete del canyon.

Ci avvicinammo all’edificio camminando distanziati di tre metri. Apparve chiaro che era un rifugio molto vecchio, una funzionale stanza singola, in puro stile pionieristico. Era costituita da grossi pezzi di legno ben logorati dal tempo, con zone marroni in mezzo a quelle grigie. Assi malconce d’epoca più recente erano inchiodate dall’interno per sigillare le finestre. La porta era chiusa da un lucchetto che non sembrava affatto vecchio. Qualcuno doveva avere assaltato la porta con un’ascia o una vanga, ma non di recente. Tra i segni erano visibili forme che ricordavano delle lettere.

Con la pistola saldamente in pugno e pronta, Zandt si servì dell’altra mano per scattare alcune foto col suo palmare. Le finestre, i muri, poi la porta.

Poi se la infilò in tasca e mi guardò. Io annuii.

Partii di slancio e buttai giù la porta con un calcio. Zandt mi seguì a ruota con la pistola spianata.

Scivolai dentro e feci un giro completo sulla destra, posizionandomi dietro la porta. Le finestre erano sigillate e dentro era buio pesto, ma la porta lasciava entrare luce più che a sufficienza. Mi si rizzarono i capelli in testa.

Il rifugio era disseminato di cadaveri.

Tre erano allineati su una panca, accasciati contro il muro. Uno era ormai ridotto a poco più di uno scheletro, gli altri due erano scuri e orribili. Uno era privo di braccia; l’addome dell’altro era esploso qualche tempo prima. Altri corpi erano accatastati in una piccola pila dall’altro lato e almeno altri due giacevano lungo il muro di fronte. A giudicare dallo stato di decomposizione, nessuno era morto di recente. Alcuni avevano brandelli e lembi di pelle e carne che penzolavano dalle ossa. Un cranio aveva la parte superiore di una bambola di plastica che spuntava da un buco nella calotta cranica. La polvere aveva reso grigi i capelli della bambola.

Man mano che i miei occhi si abituavano alla penombra, cominciavo a vedere sempre più parti di corpi rinsecchiti: un piccolo e ordinato cumulo contro il muro di sinistra. Ne smossi una parte con il piede e notai che sotto c’era uno spesso strato di ossa, in alcuni punti poco più che sabbia.

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