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Philip Dick: La svastica sul sole

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In questo romanzo di fantascienza, considerato uno dei più autentici classici della science fiction americana, Philip K. Dick ci descrive il quadro di come potrebbe essere un mondo in cui il nazismo avesse vinto la guerra mondiale. Parlare di nazismo e delle sue colpe potrebbe sembrare un tema troppo importante e doloroso per farne oggetto di un romanzo di fantascienza, ma Dick, nella Svastica sul sole, ci dimostra come invece la fantascienza possa diventare un modo assai efficace per ritrarre sotto un aspetto nuovo la lucida, razionale follia del nazismo e il tumulto di pensieri confusi e malati che porta con sé e trasmette alle persone ad esso asservite: nel mondo descritto da Dick, l’Asse ha vinto la guerra, l’Italia ha preso le briciole, e l’Africa è stata distrutta in un “esperimento”, Giappone e Germania si sono spartiti il mondo, e il credo della superiorità razziale “Ariana” si è talmente compenetrato nelle altre nazioni da togliere loro ogni volontà. Vincitore del premio Hugo per il miglior romanzo in 1963.

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«Cercavate oggetti d’arte etnica della tradizione americana per fare un regalo?» chiese Childan. «O magari volete arredare il nuovo appartamento per la vostra permanenza in questa città?» In questo caso… il suo cuore prese a battere più forte.

«Ha proprio indovinato,» rispose la ragazza. «Stiamo cominciando ad arredare. Ma non abbiamo ancora le idee chiare. Lei pensa di poterci consigliare?»

«Potrei venire nel vostro appartamento, sì,» disse Childan. «Portare diversi esemplari e darvi dei consigli, con vostro comodo. Questa, naturalmente, è la nostra specialità.» Abbassò gli occhi in modo da nascondere la speranza. Poteva essere un affare da migliaia di dollari. «Sto per ricevere un tavolo in acero del New England, tutto con incastri in legno, senza chiodi. Un oggetto di bellezza e valore straordinari. E uno specchio che risale alla Guerra del 1812. Ho anche degli oggetti d’arte aborigena: un gruppo di tappeti in lana di capra, tinto con colori vegetali.»

«Per quanto mi riguarda,» disse l’uomo, «preferisco l’arte delle città.»

«Sì,» disse Childan, premuroso. «Mi ascolti, signore. Ho un pannello proveniente da un vecchio ufficio postale, originale in legno, quattro sezioni, dipinto da Horace Greeley. Un pezzo da collezionista dal valore inestimabile.»

«Ah,» esclamò l’uomo, con gli occhi neri che brillavano per l’interesse.

«E una radio Victrola del 1920 adattata a mobiletto per i liquori.»

«Ah.»

«E ascolti, signore: una fotografia incorniciata di Jean Harlow, con dedica. »

L’uomo sgranò gli occhi.

«Vogliamo accordarci?» disse Childan, rendendosi conto che era il momento psicologicamente adatto. Estrasse dalla tasca interna della giacca una penna e un taccuino. «Prenderò il vostro nome e indirizzo, signori.»

Dopo, mentre la coppia usciva dal negozio, Childan rimase in piedi con le mani dietro la schiena, a guardare la strada. Gioia. Se tutti i giorni fossero come quello… ma era ben più di una questione di affari, del buon andamento del suo negozio. Era l’occasione per conoscere socialmente una giovane coppia giapponese, che lo accettava come uomo invece che come yank o, nel migliore dei casi, come un commerciante che vendeva oggetti artistici. Sì, questi due giovani, della generazione emergente, che non ricordavano i giorni prima della guerra, e nemmeno la guerra stessa… erano loro la speranza del mondo. La diversa provenienza non aveva nessun significato, per loro.

Finirà , pensò Childan. Prima o poi. L’idea stessa della provenienza. Non governanti e governati, ma persone.

Eppure tremava dalla paura, immaginandosi mentre bussava alla loro porta. Controllò i suoi appunti. I signori Kasoura. Sarebbe stato ricevuto, e certamente gli avrebbero offerto del tè. Lui si sarebbe comportato nel modo giusto? Avrebbe saputo come muoversi, come parlare, in ogni momento? O sarebbe caduto in disgrazia, come un animale, commettendo qualche sciagurato passo falso?

La ragazza si chiamava Betty. Quanta comprensione nel suo volto, pensò Childan. Occhi gentili, in grado di capire. Senza dubbio, anche nel breve tempo che si era trattenuta nel negozio, lei aveva colto l’immagine delle sue speranze e delle sue sconfitte.

Le sue speranze… all’improvviso ebbe come un senso di vertigine. Quali aspirazioni aveva, ai confini della follia se non del suicidio? Ma si sapeva, esistevano relazioni fra giapponesi e yank , anche se in genere erano fra un uomo giapponese e una donna yank. Questo… l’idea lo sgomentò. E poi lei era sposata. Scacciò dalla sua mente la sfilata di pensieri involontari e si mise di buona lena ad aprire la posta del mattino.

Si accorse che le sue mani tremavano ancora. Poi gli venne in mente l’appuntamento delle due con il signor Tagomi; a quel pensiero, le mani smisero di tremare e il nervosismo si trasformò in risolutezza. Devo presentarmi con qualcosa di accettabile , si disse. Dove? Come? Che cosa? Una telefonata. Alle fonti. Abilità negli affari. Rimediare una Ford del 1929 completamente revisionata, compreso il tettuccio di stoffa (nero). Un colpo a sensazione, tale da assicurargli una clientela fedele nel tempo. Un trimotore del servizio postale, originale e nuovo di zecca, imballato pezzo per pezzo, scoperto in un granaio dell’Alabama, ecc. La testa mummificata del signor Buffalo Bill, fluenti capelli bianchi compresi; un manufatto americano di sensazionale interesse. Una reputazione tutta da costruire nei circoli degli intenditori più raffinati del Pacifico, comprese le Isole Patrie.

Per farsi venire l’ispirazione, si accese una sigaretta alla marijuana, un eccellente tabacco Land-O-Smiles.

Nella sua stanza di Hayes Street, Frank Frink era a letto e si domandava come avrebbe fatto ad alzarsi. Il sole filtrava attraverso la tapparella sul mucchio di vestiti caduti a terra. Insieme ai suoi occhiali. Li avrebbe calpestati? Meglio tentare di raggiungere il bagno facendo un’altra strada, pensò. Strisciando o rotolando. Aveva un gran mal di testa ma non si sentiva triste. Mai guardarsi indietro , decise. Che ora era? L’orologio era sul cassettone. Le undici e mezza! Santo Dio. Ma rimase a letto.

Sono licenziato , pensò.

Il giorno prima, in fabbrica, aveva commesso un errore. Si era rivolto nella maniera sbagliata al signor Wyndham-Matson, il quale aveva un viso schiacciato e un naso simile a quello di Socrate, un anello con diamante e la lampo dei pantaloni d’oro massiccio. In altre parole, un potente. Un trono. I pensieri di Frank vagavano senza lucidità.

, pensò, e adesso mi metteranno sulla lista nera; le mie capacità non servono a niente. Un’esperienza di quindici anni. Buttata via.

E adesso avrebbe dovuto comparire di fronte alla Commissione di Giustificazione dei Lavoratori per una revisione della sua categoria d’impiego. Visto che non era mai riuscito a comprendere i rapporti fra Wyndham-Matson e i pinoc - il governo-fantoccio bianco di Sacramento — non era in grado di valutare la potenza del suo ex datore di lavoro nei riguardi della vera autorità, i giapponesi. La CGL era una creatura dei pinoc. Lui si sarebbe ritrovato davanti a quattro o cinque facce bianche e grassocce, di mezza età, sul tipo di Wyndham-Matson. Se non fosse riuscito a giustificarsi in quella sede, avrebbe dovuto rivolgersi a una delle Missioni Commerciali Import-Export che operavano fuori Tokyo, e che avevano uffici in California, Oregon, Washington e nelle zone del Nevada comprese negli Stati Americani del Pacifico. Ma se non fosse riuscito a difendersi neppure lì…

La sua testa continuava a elaborare piani mentre lui se ne stava a letto fissando il vecchio lampadario sul soffitto. Per esempio, poteva introdursi clandestinamente negli Stati delle Montagne Rocciose. Ma c’erano rapporti molto stretti con gli Stati Americani del Pacifico, e avrebbero potuto chiedere la sua estradizione. Il Sud, allora? Il suo corpo ebbe un sussulto. Ugh. Quello no. Come bianco avrebbe avuto a disposizione un’ampia varietà di posti, in effetti più di quelli di cui poteva godere negli S.A.P. Ma… quel genere di posti non gli andava a genio.

E poi, peggio ancora, il Sud intratteneva strettissimi legami economici, ideologici e Dio sa che altro, con il Reich. E Frank Frink era ebreo.

Il suo vero nome era Frank Fink. Era nato sulla Costa Orientale, a New York, e nel 1941 era stato arruolato nell’Esercito degli Stati Uniti d’America, subito dopo il crollo della Russia. Quando i giap avevano preso le Hawaii, lo avevano spedito sulla Costa Occidentale. Alla fine della guerra si era ritrovato lì, sul lato giapponese della linea di divisione. E si trovava ancora lì, quindici anni dopo.

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