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Ursula Le Guin: La falce dei cieli

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Ursula Le Guin La falce dei cieli

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George Orr ha paura di sognare. Perchè si è reso conto che alcuni dei suoi sogni diventano realtà… nel bene e nel male. Angosciato da questo suo oscuro potere e incapace di dominarlo, George tenta il suicidio e viene così affidato a uno psicanalista che promette di aiutarlo. Ben presto, tuttavia, George scoprirà che il medico ha un piano ben preciso per sfruttare le capacità del suo singolare paziente…

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— Dirà che era un cavallo — fece Orr, in tono calmo ma dolente. — Lo è sempre stato. Dopo il mio sogno. Era un cavallo. Ho creduto che forse, visto che era stato lei a suggerirmi il sogno, forse anche lei, come me, poteva conservare il doppio ricordo. Ma ora vedo che non è affatto così. — E i suoi occhi, che ora non fissavano più in basso, si puntarono nuovamente su Haber con la loro chiarezza, la loro carica di sopportazione, la loro tranquilla e disperata richiesta di aiuto.

Quell’uomo era malato. Bisognava curarlo. — Vorrei che lei tornasse da me, George. Domani, se le è possibile.

— Be’, il lavoro…

— Si faccia dare un’ora di permesso, e venga da me alle quattro. Lei è in Terapia Volontaria. Lo comunichi al suo capufficio, e non provi nessun falso pudore nel dirglielo. Prima o poi, l’82 per cento della popolazione finisce in Terapia Volontaria, per non parlare del 31 per cento che finisce in quella obbligatoria. Quindi, venga da me alle quattro, e riprenderemo a lavorare insieme. Otterremo certamente dei buoni risultati, lo sa anche lei. Per ora, eccole una ricetta per del meprobamato: terrà un po’ in sordina i suoi sogni, ma senza eliminare lo stadio-d. Può richiedere all’automatico una nuova dose ogni tre giorni. Se le succede di fare un sogno, o qualsiasi altra esperienza, che la spaventa, telefoni a me, giorno e notte. Ma non credo che le possa succedere, se prende il meprobamato; e se è disposto a lavorare seriamente con me, in poco tempo potrà fare a meno dei farmaci. Risolveremo tutto questo suo problema dei sogni, lo metteremo sul tappeto, in chiaro. D’accordo?

Orr prese la ricetta su scheda perforata. — Sarebbe un enorme sollievo — disse. Sorrise: un sorriso un po’ sforzato, infelice, ma con una sfumatura ironica. — Ah, a proposito del cavallo… — fece.

Haber, che lo superava di tutta la testa, lo fissò.

— Mi ricorda lei — disse Orr.

Haber lanciò subito un’occhiata alla riproduzione. Era vero. Grosso, robusto, irsuto, color castano rossiccio, lanciato su di te al galoppo…

— Forse — chiese, in tono simpatico e perspicace, — il cavallo del sogno assomigliava a me?

— Certo, le assomigliava — disse il paziente.

Quando Orr fu uscito, Haber si sedette e rimase a fissare un po’ allarmato la riproduzione fotografica di Tammanny Hall. Davvero, era troppo grossa per l’ufficio. Accidenti, perché non si poteva permettere un ufficio con una vera finestra!

CAPITOLO TERZO

Coloro che sono aiutati dal Cielo sono da noi chiamati figli del Cielo. Essi non imparano attraverso lo studio. Essi non elaborano mediante il lavoro. Essi non ragionano servendosi della ragione. Arrestare la comprensione a ciò che non può essere compreso è un grande conseguimento. Chi non saprà farlo verrà distrutto dalla Falce dei Cieli.

Chuang Tse: XXIII

George Orr lasciò l’ufficio alle 3 e mezza e si diresse alla stazione del metrò; a piedi, perché non possedeva un’auto. Forse, risparmiando, si sarebbe potuto permettere una VW a vapore e relativa tassa di circolazione, ma a che scopo? Il centro era un’isola pedonale, ed egli abitava proprio laggiù. Aveva preso la patente, ancora negli anni ’80, ma non aveva mai acquistato un’auto. Prese la linea di Vancouver fino a Portland. I vagoncini erano già affollatissimi; fu costretto a viaggiare senza potersi tenere a maniglie o mancorrenti, sostenuto solamente dalla pressione ugualizzatrice dei corpi umani che lo premevano da tutti i lati: ogni tanto i suoi piedi perdevano il contatto con il fondo della vettura ed egli veniva sollevato in aria, quando la forza di affollamento (simboleggiata da a ) superava quella di gravità ( g ). L’uomo accanto a lui, che teneva in mano il giornale, per tutto il viaggio non riuscì ad abbassare il braccio e dovette rimanersene immobile, con la faccia immersa nella pagina sportiva. Il titolo «GRANDE SCIOPERO INTERVENTISTA AL CONFINE AFGANO» e il sottotitolo «Minaccia di intervento» fissarono Orr negli occhi per sei fermate. Poi il proprietario del giornale riuscì a conquistare l’uscita e venne sostituito da un paio di pomidoro in un contenitore di plastica verde, proprietà di una vecchia signora in impermeabile di plastica verde, la quale gli rimase sul piede sinistro per le ultime tre fermate.

Orr guadagnò l’uscita alla fermata di Est Broadway, e si fece strada per quattro isolati attraverso la folla crescente degli impiegati che uscivano dall’ufficio, fino a raggiungere la East Tower Willamette: un colonnone di vetro e cemento armato, brutto e pretenzioso, che lottava con l’ostinazione di un vegetale per rubare alla giungla di edifici similari che lo stringevano d’assedio la luce e l’aria. Ben poco di entrambe giungevano al livello del suolo, e quel poco era caldo e pieno di una fine acquerugiola. Per la città di Portland, la pioggia era un’antica tradizione, ma il caldo — 25 °C al 2 di marzo — era un fenomeno moderno, un effetto dell’inquinamento atmosferico. Gli effluvi urbani e industriali non erano stati messi sotto controllo in tempo, e le tendenze cumulative che erano già all’opera alla metà del ventesimo secolo non si erano mai invertite; sarebbero occorsi vari secoli perché l’anidride carbonica in eccesso sparisse dall’aria, ammesso che lo facesse. New York era una delle maggiori perdite dovute all’Effetto Serra, perché le calotte polari continuavano a sciogliersi e il livello del mare ad alzarsi; in realtà tutte le coste erano in pericolo. Tuttavia, c’era anche qualche vantaggio. La Baia di S. Francisco aumentava di livello, e avrebbe finito col ricoprire le varie centinaia di chilometri quadrati di terra di riporto e di spazzatura che vi erano stati gettati a partire dal 1848. Per quanto riguardava Portland, separata dal mare da un centinaio di chilometri e dalla Catena Costiera, non era minacciata dall’acqua che saliva: soltanto da quella che scendeva dal cielo.

Nell’Oregon occidentale era sempre piovuto, ma ora vi pioveva incessantemente; una pioggia continua e calda. Era come vivere sotto un eterno scroscio di brodaglia tiepida.

Le «Città Nuove» — Umatilla, John Day, French Glen — erano state costruite a est delle Cascate, in una zona dove trent’anni prima c’era il deserto. In estate, laggiù, faceva un caldo spaventoso, ma le precipitazioni atmosferiche erano soltanto 1350 mm l’anno, mentre a Portland si arrivava fino a 2900 mm. Era possibile praticare l’agricoltura intensiva: il deserto fioriva. Oggi French Glen aveva una popolazione di 7 milioni di anime. Portland, con i suoi 3 milioni e nessun potenziale per la crescita, era stata lasciata indietro dalla Marcia del Progresso. Per Portland era storia vecchia, ma che differenza faceva? La denutrizione, il sovraffollamento e un crescente deterioramento ambientale erano la norma. Nelle Vecchie Città erano in aumento lo scorbuto, il tifo e l’epatite; nelle Città Nuove la delinquenza organizzata, la criminalità e gli omicidi. I topi spadroneggiavano nelle une, la Mafia nelle altre. George Orr rimaneva a Portland perché ci era sempre vissuto e perché non aveva motivo di credere che la vita in un altro posto potesse essere migliore, o anche soltanto diversa.

Miss Crouch, con un sorriso privo d’interesse, lo fece entrare immediatamente. Orr avrebbe detto che gli uffici degli psichiatri, come le tane di coniglio, avevano sempre due porte: una d’ingresso e una d’uscita, ma quello di Haber aveva una porta sola. Però Orr dubitava che i pazienti corressero il rischio di scontrarsi mentre entravano e uscivano da lì. Alla Clinica Universitaria gli avevano detto che il dottor Haber teneva soltanto un numero limitato di pazienti, dato che, essenzialmente, era un ricercatore. Questo gli aveva fatto pensare a una persona affermata e un po’ ritirata, e il comportamento gioviale e sicuro del medico gli aveva confermato tale convinzione. Ma oggi, meno nervoso, si accorse di vari particolari che non aveva notato. L’ufficio non dava l’impressione cuoio e acciaio cromato caratteristica del successo finanziario, né l’impressione stracci e provette del disinteresse scientifico; il rivestimento delle poltrone e del divano era in vinile, la scrivania era un tavolo metallico con rivestitura in laminato plastico imitazione legno. Nulla, lì dentro, era genuino. Il dottor Haber, grosso, capigliatura folta e rossiccia, denti bianchi, esclamò con un gran vocione: — Buon giorno!

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