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Isaac Asimov: Abissi d’acciaio

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Isaac Asimov Abissi d’acciaio

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New York è irriconoscibile: niente più torri e grattacieli, ma un’immensa metropoli «coperta» che non viene mai a contatto con l’aria, dove decine di milioni di uomini e donne brulicano come formiche sulle strade mobili. Dove il lusso di un bagno privato è inammissibile. Dove, soprattutto, i robot stanno soffiando i posti di lavoro agli uomini a un ritmo sempre più preoccupante. E alle porte di New York si stende come una sfida Spacetown, la città degli Spaziali dove tutto è lusso e ariosità, superbia e ostentazione. C’è da meravigliarsi che uno dei tanti terrestri scontenti ammazzi uno Spaziale nella sua aristocratica dimora di Spacetown? E c’è da meravigliarsi se il caso rischia di diventare un incidente interplanetario? Per risolverlo bisogna ricorrere al miglior poliziotto della City, Lije Baley, e affidargli come compagno il miglior poliziotto di Spacetown, R. Daneel Olivaw. Il guaio è che quella «R.» significa robot : sta per cominciare una sfida implacabile tra l’intelligenza umana e quella artificiale per risolvere l’omicidio più esplosivo che la Terra ricordi; e, per il lettore, una delle letture più appassionanti nel campo della fantascienza «pura». Nuova traduzione integrale e introduzione di Giuseppe Lippi

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Isaac Asimov

Abissi d’acciaio

I

Conversazione con un questore

Lije Baley era appena arrivato alla sua scrivania quando si accorse che R. Sammy lo fissava, come in attesa.

Le linee severe della sua faccia s’indurirono. «Che cosa vuoi?»

«Il capo ti cerca, Lije. Vuole che tu vada da lui immediatamente.»

«D’accordo.»

R. Sammy se ne rimase lì senza battere ciglio.

«Ho detto d’accordo!» scattò Baley. «Vattene, adesso!»

R. Sammy girò sui tacchi e tornò al solito lavoro. Baley si chiese, irritato, perché lo stesso lavoro non potesse farlo un uomo.

Esaminò il contenuto della borsa del tabacco e fece qualche calcolo mentale: a due pipate al giorno, poteva tirare fino alla prossima distribuzione.

Uscì lentamente dall’angolo riservato (si era conquistato un angolo riservato due anni prima) e attraversò la sala comune.

Simpson alzò gli occhi dai congegni dello schedario mercurico e disse: «Il capo ti cerca, Lije».

«Lo so, R. Sammy me l’ha detto.»

Dall’interno dello schedario uscì un nastro in codice, mentre il piccolo strumento frugava nella sua memoria e analizzava il risultato per fornire le informazioni archiviate nella scintillante superficie di mercurio.

«Gli darei un calcio nel sedere, a quel R. Sammy» disse Simpson. «Ma non ci tengo a rompermi una gamba. Sai, l’altro giorno ho visto Vince Barrett.»

«Ah.»

«Cercava di farsi ridare il suo lavoro, o qualunque lavoro qui al Dipartimento. Il ragazzo è disperato, ma che potevo dirgli? Il suo lavoro lo fa R. Sammy, adesso. E così gli tocca fare il garzone per una fabbrica di lieviti; era un ragazzo in gamba, piaceva a tutti.»

Baley si strinse nelle spalle e disse, con più asciuttezza di quanta intendesse: «È una cosa che dobbiamo sopportare tutti».

Il capo aveva diritto a un ufficio personale. Sulla porta di vetro smerigliato c’era scritto JULIUS ENDERBY, a belle lettere impresse nel cristallo. Più sotto, QUESTORE DELLA CITTÀ DI NEW YORK.

Baley entrò e chiese: «Voleva vedermi, questore?»

Enderby alzò gli occhi: portava gli occhiali perché aveva i bulbi sensibili e non poteva permettersi le normali lenti a contatto. Solo dopo essersi abituati alla vista di quegli aggeggi si riusciva a prestare attenzione alla faccia, che, del resto, non aveva nulla di notevole. Baley sospettava che il questore portasse gli occhiali per l’aria d’importanza che gli davano, non perché avesse gli occhi sensibili.

Il questore lo guardò con evidente nervosismo. Si lisciò i ciuffi, si appoggiò allo schienale e disse, fin troppo cordialmente: «Siediti, Lije, siediti».

Baley si mise a sedere rigido e aspettò.

Enderby chiese: «Come sta Jessie? E il ragazzo?».

«Bene» rispose Baley, piatto. «Molto bene. E la sua famiglia?»

«Bene» ripeté Enderby.

Era stata una falsa partenza.

Baley pensò: "C’è qualcosa che non va, nella sua faccia".

A voce alta, disse: «Questore, vorrei che non mi mandasse a cercare da R. Sammy».

«Sai come la penso su queste cose, Lije. Ma l’hanno messo qui e dobbiamo pur fargli fare qualcosa.»

«Mi mette a disagio, signore. Dice che lei vuole vedermi e poi rimane lì impalato. Sa cosa intendo. Devo dirgli materialmente di andarsene, o resterebbe lì in eterno.»

«Questa è colpa mia. Gli ho dato il messaggio e ho dimenticato di specificare che una volta eseguito l’ordine poteva tornare al lavoro.»

Baley sospirò. Le pieghe agli angoli degli occhi intensamente scuri si accentuarono. «Comunque, lei voleva vedermi.»

«Sì, Lije» disse il questore. «Ma non per una cosa facile.»

Si alzò, girò la schiena e s’incamminò verso la parete alle spalle della scrivania. Toccò un bottone invisibile e una sezione del muro divenne trasparente.

Baley batté gli occhi perché non s’aspettava l’improvvisa inondazione di luce grigia.

Il questore sorrise. «Mi sono fatto installare questo trucchetto l’anno scorso, Lije. Non credo di avertelo mai mostrato. Vieni, dai un’occhiata. Ai vecchi tempi tutte le stanze avevano un affare così. Si chiamavano finestre, lo sapevi?»

Baley lo sapeva perfettamente, perché aveva visto parecchi romanzi storici.

«Ne ho sentito parlare» disse.

«Vieni qui.»

Baley si sentì rabbrividire un poco, ma fece come gli era stato chiesto. C’era qualcosa di indecente nell’esposizione di una camera privata alla luce del mondo esterno. A volte il questore spingeva le sue manie medievali fino all’estremo.

Come per gli occhiali, Baley pensò.

Ecco cos’era! Ecco cosa lo faceva sembrare "strano"!

Baley chiese: «Scusi, questore, porta occhiali nuovi?».

L’altro lo guardò con una certa sorpresa, si tolse gli occhiali e li rimirò. Poi guardò Baley. Senza, la sua faccia sembrava più rotonda e il mento più pronunciato. Aveva un’aria imbambolata, perché i suoi occhi non riuscivano a mettere a fuoco le cose.

Rispose: «Sì».

Si rimise gli occhiali sul naso e aggiunse, con autentica rabbia: «Ho rotto i vecchi tre giorni fa. Fra una cosa e l’altra non sono riuscito a sostituirli prima di stamattina. Lije, ho passato tre giorni d’inferno».

«Per via degli occhiali?»

«E di altre cose. Ci arrivo.»

Si voltò verso la finestra e Baley lo imitò. Con un brivido Baley si accorse che fuori pioveva. Rimase perso per un minuto nello spettacolo dell’acqua che cadeva dal cielo, mentre il questore trasudava orgoglio, neanche fosse opera sua.

«È la terza volta, questo mese, che guardo la pioggia. Bello spettacolo, non ti pare?»

Controvoglia Baley dovette ammettere che era impressionante. In quarantadue anni di vita aveva visto raramente la pioggia o altri fenomeni della natura.

Commentò: «Mi sembra uno spreco che tanta acqua si versi sulla città. Dovrebbe cadere solo nei bacini».

«Lije» disse il questore «sei un inguaribile uomo moderno. Questo è il tuo guaio. Nel medioevo la gente viveva all’aperto, e non intendo solo nelle fattorie, ma nelle città. Perfino a New York si viveva all’aperto. Quando pioveva, la gente non pensava che fosse uno spreco. Era contenta. Viveva a contatto con la natura. È più sano, è meglio. La vita moderna ha divorziato dalla natura, da qui vengono i guai. Qualche volta, leggi come andavano le cose nel Secolo del Carbone.»

Baley l’aveva fatto. Aveva sentito troppa gente lamentarsi dell’invenzione della pila atomica, e lui stesso brontolava quando le cose andavano male o quando semplicemente era stufo. Lamentarsi è una caratteristica innata della specie umana. Nel Secolo del Carbone la gente imprecava contro la macchina a vapore; in una commedia di Shakespeare un personaggio lamenta l’invenzione della polvere da sparo. Mille anni dopo ci si lamentava per la fabbricazione del cervello positronico.

All’inferno.

Baley disse, cupo: «Mi stia a sentire, Julius». (Non era sua abitudine prendersi certe confidenze con il questore nelle ore di lavoro, anche se l’altro gli dava sbrigativamente del tu; ma stavolta gli sembrava il caso di fare un’eccezione.) «Mi stia a sentire, lei sta parlando di tutto meno della ragione per cui mi ha fatto chiamare. E questo mi preoccupa. Di che si tratta?»

Il questore rispose: «Ci arrivo, Lije, ma fammi fare a modo mio. Sono… guai».

«Sicuro, su questo pianeta non c’è altro. Guai con R.?»

«In un certo senso, sì. Mi chiedo quante altre rogne il vecchio mondo potrà sopportare. Quando ho fatto installare la finestra non è stato solo per guardare il cielo. Volevo tenere d’occhio la città, e adesso mi chiedo che cosa ne sarà fra un altro secolo.»

Il sentimentalismo del superiore ripugnava a Baley, ma non poté fare a meno di contemplare il mondo esterno con una punta di fascino. Anche incupita dal cattivo tempo la Città offriva una vista spettacolare. Il Dipartimento di Polizia si trovava ai piani superiori del Municipio, e il Municipio svettava molto in alto. Dalla finestra del questore si vedeva la cima delle altre torri, più basse. Sembravano altrettante dita puntate al cielo. Le pareti erano lisce e senza aperture. Erano i gusci esterni dell’alveare umano.

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