Frank Herbert - Gli occhi di Heisenberg

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Gli occhi di Heisenberg: краткое содержание, описание и аннотация

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In un futuro lontano, una classe dominante di umani geneticamente modificati ottiene l’equivalente dell’immortalità mediante l’uso di droghe. Questa classe dominante tiene l’intera società in stasi grazie alla manipolazione genetica del genoma umano, eliminando ogni sorta di mutazione spontanea dello stesso. Come se non bastasse, solo poche persone attentamente selezionate hanno la possibilità di riprodursi. Tuttavia nelle megalopoli si sviluppano dei movimenti clandestini ed appare una razza di cyborg, opposta agli immortali.

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Poi un’oscurità immensa e profondissima sembrò calare sul suo cervello.

CAPITOLO NONO

La nuova addetta al computer dell’Ospedale di Seatac riuscì a parlare con Max Allgood al videotelefono dopo un intervallo molto breve, il tempo necessario alla Sicurezza per rintracciarlo. Sullo schermo, gli occhi di Allgood apparivano infossati. La bocca era contratta in una smorfia.

«Sì?» esordì. «Oh, è lei.»

«Sta accadendo qualcosa di molto importante,» gli comunicò la donna. «Svengaard si trova nella sala degli embrioni, e sta esaminando al microscopio quello dei Durant.»

Allgood alzò gli occhi al cielo. «Ma per l’amor di… Ed è per questo che mi ha tirato… che mi chiamato?»

«Ho sentito un rumore e lei mi aveva raccomandato…»

«Faccia finta che non le abbia detto nulla.»

«Le dico che ho udito del trambusto, e che adesso il Dottor Svengaard non è più nella sala, è sparito. E non l’ho visto uscire.»

«Probabilmente si sarà servito di un’altra porta.»

«Non ci sono altre porte.»

«Mi stia a sentire, dolcezza, ho una cinquantina di agenti che controllano quella sala. Neppure una mosca potrebbe muoversi là dentro, senza essere rilevata dai nostri sensori.»

«Allora controlli dove è andato Svengaard.»

«Oh, per…»

«Controlli!»

«Va bene, va bene!» Allgood attivò la sua linea riservata, contattò uno degli agenti. Attraverso l’altra linea, che era rimasta aperta, la donna poté udire le parole del capo della Sicurezza. «Dov’è Svengaard?»

Una voce, attutita dalla distanza, rispose, «È entrato, ha esaminato al microscopio l’embrione dei Durant, poi è andato via.»

«E uscito dalla porta?»

«Certo.»

Il viso di Allgood riapparve sullo schermo dell’addetta al computer. «Ha sentito?»

«Sì, ma sono rimasta nascosta all’estremità del corridoio dal momento in cui è entrato nella sala, e non l’ho visto uscire.»

«Probabilmente si sarà girata per pochi secondi.»

«Be’…»

«L’ha fatto, vero?»

«Posso aver distolto lo sguardo per un istante, ma…»

«E così l’ha perso.»

«Ma ho sentito del trambusto, lì dentro!»

«Se fosse successo qualcosa di strano, i miei uomini me l’avrebbero già riferito. Quindi dimentichi l’intera faccenda. Il nostro problema non è Svengaard. Loro mi avevano avvertito che probabilmente avrebbe fatto qualcosa del genere, e che noi non dovevamo preoccuparcene troppo. E su queste cose hanno sempre ragione.»

«Se è proprio sicuro.»

«Sì, ne sono sicuro.»

«Mi dica, ma perché siamo tanto interessati a quell’embrione?»

«Non ha bisogno di saperlo, tesoro. Ritorni al suo lavoro e mi lasci riposare per un po’.»

La donna interruppe la comunicazione, chiedendosi ancora la causa del rumore che aveva udito: era come se qualcuno fosse stato colpito da un oggetto.

Allgood rimase a fissare lo schermo vuoto. Rumore? Trambusto? Sul suo viso si dipinse una smorfia interrogativa, poi Allgood espirò lentamente. Dannata pazzoide!

Improvvisamente si alzò e si voltò verso il letto, in cui giaceva la Compagna che si era scelto per la notte, avvolta nella luce rosata di un abat-jour, ancora non del tutto sveglia; lo stava fissando. Lo sguardo dei suoi occhi dalle lunghe ciglia di colpo lo fece infuriare.

«Dannazione, fuori di qui!» ruggì Allgood.

La Compagna si rizzò a sedere sul letto, ormai completamente sveglia, lo guardò.

«Fuori!» le ordinò Allgood, indicandole la porta.

La donna quasi ruzzolò giù dal letto, raccolse i propri indumenti, e uscì di corsa: un fugace lampo di carne rosea.

Solo quando fu andata via, Allgood comprese a chi assomigliasse: a Calapine. Una ben misera copia, però. Poi si meravigliò della sua reazione. I Cyborg gli avevano assicurato che le modifiche che avevano fatto, gli strumenti che avevano impiantato nel suo corpo, lo avrebbero aiutato a controllare le proprie emozioni, gli avrebbero permesso di mentire impunemente perfino agli Optimati. Ma quello scoppio d’ira l’aveva spaventato. Abbassò lo sguardo su una delle pantofole, abbandonata sul tappeto grigio; l’altra era finita chissà dove. Diede un calcio alla pantofola e iniziò a camminare avanti e indietro.

C’era qualcosa che non andava. Lo sentiva. Era vissuto per quasi quattrocento meravigliosi anni, la maggior parte dei quali trascorsi al servizio degli Optimati. Di conseguenza aveva sviluppato un istinto quasi infallibile nel riconoscere le situazioni di pericolo. Era una questione di sopravvivenza.

C’era qualcosa che non andava.

Forse i Cyborg gli avevano mentito? Lo stavano usando per portare a compimento uno di quei piani tortuosi tanto tipici della loro logica?

Inciampò sulla pantofola, la ignorò.

Rumore. Trambusto.

Pronunciando sottovoce un’imprecazione, ritornò alla sua linea riservata, richiamò l’agente. Il volto che apparve sullo schermo aveva un che di infantile: labbra tumide, occhi grandi e ansiosi.

«Andate nella sala delle vasche e ispezionatela,» ordinò Allgood. «Minuziosamente. Cercate le tracce di un eventuale colluttazione.»

«Ma se qualcuno ci vede…»

«Al diavolo! Faccia come le ho detto!»

«Sissignore!»

L’agente interruppe la comunicazione.

Allgood si liberò frettolosamente della vestaglia, ogni desiderio di dormire ormai cancellato dalla sua mente, poi fece una doccia veloce e iniziò a vestirsi.

C’era qualcosa che non andava. Lo sentiva. Prima di lasciare il suo alloggio, diramò l’ordine di trovare Svengaard e di portarlo da lui per essere interrogato.

CAPITOLO DECIMO

Alle otto del mattino, le strade e i marciapiedi mobili del distretto industriale settentrionale di Seatac brulicavano di vetture e di pedoni: flussi continui di persone tutte prese dalle loro preoccupazioni, indifferenti a ogni altra cosa. Il Controllo Meteorologico aveva annunciato che quel giorno la temperatura si sarebbe mantenuta piacevolmente sui venti gradi, con cielo terso. Dopo un’ora, iniziato ormai il turno di lavoro, il traffico si sarebbe diradato di molto. Il Dottor Potter aveva visto molte volte la città in preda a quella frenesia, ma era la prima volta che ne veniva coinvolto.

Sapeva che l’Associazione Clandestina dei Genitori aveva scelto quell’orario proprio perché era perfetto per mimetizzarsi tra la folla. Lui e la sua guida erano soltanto due membri insignificanti di quei flussi umani. Chi mai li avrebbe notati? Quel pensiero, tuttavia, non diminuì l’interesse affascinato con cui Potter osservava la scena.

Una Steri dalla corporatura imponente, che indossava la divisa a strisce verdi e bianche degli addetti alle presse in un complesso industriale, lo urtò superandolo. Per Potter aveva l’aspetto di una B2022419kG8, con la pelle color crema e lineamenti marcati. Da un cerchietto d’oro all’orecchio pendeva un feticcio della fertilità.

Era seguita quasi a ruota da un ometto con le spalle cascanti che impugnava una corta sbarra d’ottone. Quando incrociò Potter, gli scoccò un sogghigno furbesco, come a volergli dire, «È l’unico modo per poter camminare senza problemi in una folla come questa.»

La guida di Potter gli fece segno di prendere il marciapiede di discesa, che lo condusse in una strada secondaria. Per Potter la sua guida era un enigma; non era neppure riuscito a individuare il suo tipo genetico. L’uomo indossava un semplice abito marrone e un cappotto. Appariva ragionevolmente normale, tranne la sua pelle: pallida, malaticcia. Gli occhi profondamente incassati scintillavano quasi come lenti. Un cappello gli nascondeva i capelli, eccetto un paio di ciuffi castani che davano quasi l’impressione di essere finti. Le sua mani, quando toccavano Potter per guidarlo, erano fredde, leggermente repellenti.

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