Robert Silverberg - L'ora del passaggio

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Nel 2103 l’umanità ha scongiurato l’olocausto nucleare, ma l’impiego selettivo di una micidiale polvere radioattiva ha comunque segnato il destino della civiltà. Sulla costa occidentale degli Stati Uniti, in un desolato scenario di angoscia e disperazione, si aggira Tom O’Bedlam, un vagabondo mite e visionario. Dotato di strani poteri Tom è immerso in estatiche visioni di gerarchie celesti, imperi galattici, fantastiche creature e meravigliosi paesaggi alieni, al di là di enormi distese di tempo e di spazio. Ma chi è realmente Tom O’Bedlam? Un pazzo invasato, un mutante telepatico, o il profeta di una nuova rivelazione? Le strane visioni acquistano un nuovo significato quando nella mente di altri personaggi affiorano lentamente sogni e allucinazioni ricorrenti che proiettano le stesse immagini di cui parla Tom. Estasi e angoscia, stupore e inquietudine, ognuno reagisce in modo diverso allo strano fenomeno, ma l’effetto è incontrollabile e nessuno sembra sfuggirvi: Elszabet, direttrice di un’isolata clinica psichiatrica; Charley, capo di una banda di razziatori; Jaspin, un antropologo fallito; Senhor Papamacer, fondatore di un culto messianico che attira migliaia di fanatici. Quando una sonda lanciata molto tempo prima raggiunge Proxima Centauri e rimanda le immagini di uno dei mondi evocati da Tom, non sembrano esserci più dubbi… Ma il tempo della trasmigrazione è ormai prossimo, e Tom si prepara a compiere il rito finale, nel quale a tutti sarà concesso di raggiungere quei mondi di sogno e di beatitudine. Ma qual è il significato di quest’ultima esperienza? Il segreto dell’immortalità e della trascendenza o la fuga allucinata da un mondo di follia e disperazione?
Con questo romanzo stimolante e provocatorio, Robert Silverberg ritorna finalmente dopo molti anni ai temi della sua migliore fantascienza.

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Ferguson toccò di nuovo l’anello, e la voce del registratore disse: — Lacy verrà su da San Francisco questo fine settimana. Alloggerà a Mendo e spera che tu riesca a ottenere il permesso di visitarla il sabato e la domenica. Telefonale subito dopo colazione. Il numero è…

Corrugò la fronte e batté altre due volte sull’anello, attingendo da una memoria più profonda: — Informami su Lacy — disse.

Il registratore disse: — Lacy Meyers vive a San Francisco, capelli rossi, zigomi alti, trentun anni, nubile, l’hai incontrata nel gennaio dello zerodue, ha lavorato con te nell’affare di Betelgeuse Cinque. Può venire soltanto se la situazione è favorevole. Compleanno il dieci marzo. Indirizzo di casa e telefono…

— Grazie — lui disse. Vivere con il mondatore era come scrivere la propria autobiografia sull’acqua. Ma non aveva in progetto di vivere in quel modo per sempre.

Raggiunse il dormitorio in fondo al lungo corridoio vivamente illuminato, la terza stanza sulla sinistra che, stando a quanto gli aveva detto l’attendente che oggi l’aveva assistito nella routine, condivideva con due compagni, un indiano che sì faceva chiamare Nick Doppio Arcobaleno, e un messicano di nome Tomás Menendez. Nessuno dei due pareva trovarsi lì in quel momento. Probabilmente erano fuori a farsi mondare, nel secondo turno. Su un letto c’era un mucchio di cubi; ne raccolse uno, lo premette, e questo gli disse qualcosa in spagnolo. Okay. Quello era facile. Sul letto opposto era distesa una coperta d’un rosso vivace con un disegno a linee intrecciate. Roba indiana, arguì. Per eliminazione, rimane il letto laggiù: dev’essere il mio.

Dio, quanto odio questa merda, pensò. Ricominciare ogni giorno come un neonato.

La cosa che non aveva dimenticato era il motivo per cui si trovava là. O là o al Riab Due, e al Riab Due erano parecchio più drastici. Quando si usciva da lì, si era qualcun altro, mite e pacifico, adatto soltanto a potare le rose. Avevano appunto avuto l’intenzione di mandarlo là, dopo la sua condanna per quella truffa spaziale, ma lui era impazzito (o aveva finto di farlo: non ne era più tanto sicuro) e così il suo avvocato era riuscito a fargli avere un anno al Nepenthe. — Quest’uomo non è un criminale — aveva sostenuto il suo avvocato. — È una vittima come chiunque altro. — Era vero. Ferguson non lo sapeva più. Forse era davvero a causa di quella faccenda mentale, quella… sindrome di Gelbard. Oppure si era trattato soltanto di una truffa? Qualunque cosa fosse stata, qui lo stavano curando per fargliela passare. Sicuro.

Si spinse fuori dal letto e schiacciò col pollice la piastra ad impronta digitale del telefono. — Linea esterna — disse.

La voce del computer rispose: — Ho un messaggio per lei. Lo vuole, signor Ferguson?

— Sì. Certo.

— È di sua moglie. A proposito della sua visita, in programma per martedì prossimo. Arriverà invece stamattina alle dieci e trenta.

— San Gesù in croce! — esclamò Ferguson. — Stai scherzando… Oggi? Che giorno è oggi?

— Venerdì 21 luglio 2103.

— E quanto tempo ha in mente di rimanere?

— Fino alle 15,00 di domenica.

Ecco che se ne andava di sicuro in fumo il fine settimana con Lacy. Figlia di puttana. Perfino lì, in quel posto, dove lui lavorava sodo per mantenere tutto il più possibile nel giusto modo… e Dio sapeva quant’era difficile, dannatamente impossibile, quando non si riusciva a ricordare niente da un giorno all’altro e sembrava che niente conservasse mai lo stesso posto. Figlia di puttana. Veniva per il suo incontro coniugale con quattro giorni di anticipo! Furibondo, replicò: — Ne sei sicuro? La dottoressa Lewis ha autorizzato il cambio della data? Dev’esserci un equivoco.

— Il numero dell’autorizzazione è…

— Lascia perdere. Qui c’è un grosso equivoco. Ho un permesso di libera uscita per sabato. Hai i dati della mia richiesta di un permesso di libera uscita per questo fine settimana, no?

— Mi spiace, signor Ferguson: non c’è niente del genere…

— Controlla di nuovo.

— Non c’è nessuna registrazione relativa ad una richiesta di permesso di libera uscita.

— Dev’esserci. C’è stato senz’altro un errore. — Prova un po’ a metterti a discutere con un computer… pensò Ferguson, scoraggiato. — So di aver fatto la domanda. Continua a cercare. E, ascolta, passami subito Elszabet Lewis. Anche lei sa che ho fatto la domanda.

— La dottoressa Lewis è con un cliente, signor Ferguson.

— Allora dille che voglio parlare con lei, subito, non appena avrà finito. — Batté sullo sconnettore, poi si portò entrambe le mani al viso premendole con forza. Riuscì a tirare due o tre profondi respiri. Poi il telefono fece blip. Il computer gli stava parlando di nuovo.

— Vuole ancora quella linea esterna, signor Ferguson?

— No. Sì. Sì, sì, certo. — Quando sentì il segnale della centrale, batté i tasti per formare il numero di Lacy a San Francisco. Le sette e quindici del mattino: l’avrebbe già trovata alzata? Quattro squilli. Hai dormito da qualche altra parte stanotte, ragazzina? Non ne sarebbe rimasto sorpreso. Poi si chiese perché mai lo sospettasse. Da quello che riusciva a ricordare, lei viveva come una monaca. Forse il mondatore non è così capillare come pensi, si disse.

Al quinto squillo, gli rispose. Aveva una voce vaga e impastata.

— Sì?

— Sono Ed, bimba.

— Ed? Ed. - Si ridestò in un lampo. — Oh, dolcezza, come stai? Ti ho pensato tanto…

— Ascolta, c’è un guaio.

— Un guaio?

— Su questo fine settimana.

— Sì? — D’un tratto molto gelida, molto remota.

— Non mi daranno il permesso. Dicono che ho avuto una ricaduta, che devo entrare nel serbatoio per un’altra risciacquata.

— Ho già prenotato, tesoro. È tutto pronto!

— Il prossimo fine settimana?

Lei rimase silenziosa per un po’. — Non sono sicura di poterlo fare… il prossimo fine settimana.

— Oh.

— Anche se non puoi uscire, non potrei venire io da te? Hai detto che c’è una casa per le visite coniugali, no? E…

— Tu non sei coniugale, Lacy.

Aveva detto la cosa sbagliata. Poté sentire il gelo da sottozero uscire dal ricevitore del telefono.

Si affrettò ad aggiungere: — Comunque, non è questo il punto. Resterò nel serbatoio durante tutto il fine settimana. Quando avranno finito con me, non saprò distinguere il gomito dal culo. E non posso avere visitatori.

— Mi spiace, Ed.

— Anche a me. Non sai quanto mi spiace.

Un altro silenzio. Poi: — Come te la cavi, comunque?

— Sto bene. Non permetterò che questi bastardi mi mettano i piedi sul collo.

— Ti ricordi ancora di me?

— Lo sai, bambina. Vedo splendere quei tuoi capelli rossi. Ti vedo seduta là, sopra di me, che stai per farmi alla grande.

— Oh, tesoro…

— Ti amo, Lacy.

— Ti amo anch’io. Senti la mia mancanza, Ed? Davvero?

— Tu lo sai quanto.

— È davvero una merda questo fine settimana che se ne va in fumo. Tu ed io che passeggiamo lungo la spiaggia, a Mendo…

— Non rendermelo più difficile — l’interruppe lui. — Sai che lo farei, se potessi.

— Avevo anch’io tante cose da dirti.

— Per esempio?

— C’è una cosa curiosa sul nostro progetto spaziale… te lo ricordi?

— Certo che lo ricordo — disse lui.

Ma doveva esserci stato un percettibile sussulto nella sua voce, poiché lei proseguì: — Voglio dire, quello… quando abbiamo cercato di vendere viaggi mentali fino a Betelgeuse Cinque. Sì, quello. L’altro giorno mi sono sognata di averne fatto uno. Un viaggio mentale. Di essere davvero andata fino a un’altra stella, sai.

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