Robert Silverberg - L'ora del passaggio

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Nel 2103 l’umanità ha scongiurato l’olocausto nucleare, ma l’impiego selettivo di una micidiale polvere radioattiva ha comunque segnato il destino della civiltà. Sulla costa occidentale degli Stati Uniti, in un desolato scenario di angoscia e disperazione, si aggira Tom O’Bedlam, un vagabondo mite e visionario. Dotato di strani poteri Tom è immerso in estatiche visioni di gerarchie celesti, imperi galattici, fantastiche creature e meravigliosi paesaggi alieni, al di là di enormi distese di tempo e di spazio. Ma chi è realmente Tom O’Bedlam? Un pazzo invasato, un mutante telepatico, o il profeta di una nuova rivelazione? Le strane visioni acquistano un nuovo significato quando nella mente di altri personaggi affiorano lentamente sogni e allucinazioni ricorrenti che proiettano le stesse immagini di cui parla Tom. Estasi e angoscia, stupore e inquietudine, ognuno reagisce in modo diverso allo strano fenomeno, ma l’effetto è incontrollabile e nessuno sembra sfuggirvi: Elszabet, direttrice di un’isolata clinica psichiatrica; Charley, capo di una banda di razziatori; Jaspin, un antropologo fallito; Senhor Papamacer, fondatore di un culto messianico che attira migliaia di fanatici. Quando una sonda lanciata molto tempo prima raggiunge Proxima Centauri e rimanda le immagini di uno dei mondi evocati da Tom, non sembrano esserci più dubbi… Ma il tempo della trasmigrazione è ormai prossimo, e Tom si prepara a compiere il rito finale, nel quale a tutti sarà concesso di raggiungere quei mondi di sogno e di beatitudine. Ma qual è il significato di quest’ultima esperienza? Il segreto dell’immortalità e della trascendenza o la fuga allucinata da un mondo di follia e disperazione?
Con questo romanzo stimolante e provocatorio, Robert Silverberg ritorna finalmente dopo molti anni ai temi della sua migliore fantascienza.

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— Che mondo fottuto — esclamò Mujer.

Tom, un po’ in disparte, disse: — Giacché l’indignazione del Signore pesa su tutte le nazioni, e la Sua furia su tutti i loro eserciti. Egli li ha completamente distrutti. Egli li ha consegnati al macello.

— Cosa sta dicendo adesso, ’sto matto? — chiese Stidge.

— È la Bibbia — spiegò Buffalo. — Non conosci la Bibbia?

— E le spine spunteranno nei loro palazzi, ortiche e rovi nelle fortezze, e diverranno dimora di draghi e corte per i gufi.

Charley domandò: — La sai tutta a memoria?

— In gran parte — rispose Tom. — Sono stato predicatore, per un po’.

— Dove?

— Lassù — disse Tom, puntando il dito oltre la sua spalla destra. — Idaho. E anche un po’ nello stato di Washington.

— Sei stato in giro?

— Un po’.

— Sei mai stato davvero a est?

Tom lo guardò. — Vuoi dire a New York, Chicago… posti come quelli?

— Sì, come quelli.

— E come? — chiese Tom. — In volo?

— Già — esclamò Mujer, scoppiando a ridere. — Volando! Su un manico di scopa!

— Una volta lo facevano — dichiarò Tamale. — Da costa a costa. Sali su un aereo a San Francisco, ti porta a New York in tre ore. Me l’ha detto mio padre.

— Tre ore — disse Stidge. — Merda. È soltanto merda.

— Tre ore — ripeté Tamale. — A chi dici merda? — Aveva sfoderato il coltello. — Dài della merda a mio padre? Su, provaci di nuovo! Di’ qualcosa anche di mia madre, Stidge. Su. Su.

— Piantàtela — disse Charley. — Siamo venuti qui per grattare. Facciamoci una bella grattata. Stidge, sei peggio di un foruncolo nel culo.

— Tu pensi che io sia disposto a crederci? Tre ore e arrivi a New York?

— L’ha detto mio padre — borbottò Tamale.

— Allora era un mondo diverso — disse Charley. — Prima della guerra della Polvere era tutto diverso. Forse erano cinque ore, uhm, Tamale?

— Tre.

Tom sentiva tutti quei discorsi premergli sul cranio come un tumore al cervello. Tre ore, cinque, che importanza aveva mai? Quel mondo se n’era andato. Si allontanò da loro.

Sentì che stava per avere una visione.

Bene. Bene. Che venisse pure. Che bisticciassero, che si facessero pure a fettine se era questo che volevano. Lui abitava in altri mondi, più belli. Camminò per un breve tratto, aggirando un intero blocco di marciapiede rovesciato e frastagliato, passando davanti a una massa di griglie di ferro tutte arrugginite; si sedette sulla cordonatura d’una strada invasa dalla sabbia, appoggiando la schiena a un enorme tronco di palma che pareva avesse l’intenzione di trovarsi ancora là quando la California e tutto ciò che l’uomo vi aveva costruito fossero stati spazzati via dal tempo.

La visione arrivò impetuosa, ed era enorme, era il tutto e d’un sol colpo.

Talvolta era tutt’intera, non un mondo alieno soltanto, ma la grande, stupenda moltitudine di essi, che arrivavano uno sopra all’altro. In simili momenti, gli pareva di essere il punto focale del cosmo. Interi imperi galattici erompevano attraverso la sua anima. Aveva la visione completa di miriadi e miriadi di regni che si accavallavano gli uni sopra gli altri là fuori, al di là della comprensione dell’umanità.

Venite a me! Ah, sì, venite, venite.

Davanti ai suoi occhi stralunati per lo stupore comparve la più grande processione che avesse mai visto, una sequenza di mondi sovrapposti ad altri mondi. Era come un torrente, una marea incontrollata. Prima il mondo verde e l’Impero dei Nove Soli e il Doppio Regno, e poi i mondi dei poro, e i mondi dei zygerone che erano i signori dei poro, e sopra tutti si ergeva la figura di kusereen Gran Signore, appartenente alla razza che governava chissà quante galassie, comprese quelle in cui si trovavano i mondi dei zygerone e dei poro. Vide tremule forme trasparenti di vita, troppo strane perfino per essere incubi. Vide dischi turbinanti di luce che si stendevano fino al nucleo stesso dell’universo. Attraverso di lui scivolarono in successione intere biblioteche di dati, liste d’imperatori, re, dèi e demoni, i testi di bibbie sacre e sconosciute religioni, la musica di un’opera per eseguire la quale sarebbero stati necessari undici anni galattici. Teneva nel palmo della mano una sfera ingioiellata non più grande d’un granello di polvere nella quale erano registrati i nomi e la storia di milioni di monarchi delle novemila dinastie di Sapiil. Vide nere torri più alte delle montagne, che s’innalzavano in una fila ininterrotta fino all’orizzonte. Aveva la più completa percezione in tutte le direzioni sia nel tempo che nello spazio. Vide i cinquanta semidei dell’epoca di Theluvara i quali erano esistiti tre miliardi di anni prima, quando perfino i Kusereen erano stati giovani, e vide il Popolo dell’Occhio della Grande Nube Stellare ancora di là da venire.

Mio Dio, pensò, mio Dio, mio Dio, io non sono niente e Tu mi porti tutte queste meraviglie. Io Tom, il Tuo Servo. Se soltanto potessi raccontar loro le cose che Tu mi fai vedere. Se soltanto potessi farlo. Come posso servire Te, che hai creato tutto questo, e così tante altre cose? Che bisogno hai di me? Forse per far sì che io glielo dica. Allora glielo dirò. Glielo farò vedere. Farò in modo che le Tue meraviglie si manifestino ai loro occhi. Mio Dio, mio Dio, mio Dio! E la visione continuò, e continuò, e continuò con i suoi mondi senza fine.

Poi scomparve, spegnendosi con uno schiocco, e lui si ritrovò disteso in una strada in rovina in mezzo ad una cittadina deserta, stupefatto, il respiro affannoso, gli indumenti intrisi di sudore. Il volto preoccupato di Charley era sospeso sopra di lui.

— Tom? Tom? Puoi parlare, Tom?

— Sì. Certo.

— Pensavano ti fosse venuto un colpo!

— Era quella più grande — lui disse. — Ho visto tutto. Ho visto il potere e la gloria. Oh, povero Tom, povero Tom! Era la più grande e non tornerà mai più!

— Lascia che ti dia una mano — insisté Charley. — Siamo pronti a proseguire. Ce la fai ad alzarti? Ecco. Ecco. Vacci piano. Hai avuto un’altra visione? Hai visto il mondo verde?

Tom annuì. — L’ho visto. Sì. Ho visto tutto… Tutto.

DUE

In trenta nudi anni sono stato
due volte venti arrabbiato
e in quaranta sono stato tre volte quindici
in continuazione, tristemente, incarcerato.
Nelle signorili soffitte del Bedlam
con la barba ispida e deliziosamente incolta,
splendide robuste manette, soavi fruste, ding-dong,
e con tutta la fame gagliarda che volevo.

Mentre io canto
«Un po’ di cibo, qualcosa da mangiare,
da mangiare, da bere o da vestire.
Vieni, dama o fanciulla,
non aver timore,
il povero Tom non farà male a nessuno».

Canto di Tom o’ Bedlam

1

C’era stato un problema inaspettato con Nick Doppio Arcobaleno quella mattina, qualcosa di assai prossimo a un collasso psichico a triplo allarme, sbucato da chissà dove e difficile da risolvere. Ed era questo il motivo per cui Elszabet era arrivata tardi all’incontro mensile dello staff. Tutti gli altri erano già lì, gli psichiatri Bill Waldstein e Dan Robinson; Dante Corelli, che dirigeva la terapia fisica, e Naresh Patel, l’uomo della neurolinguistica. Erano tutti seduti intorno al grande tavolo da conferenze in legno di sequoia, ognuno di loro intento a rilassarsi secondo la propria personale tecnica, quando, poco dopo le undici, lei finalmente entrò nella stanza.

Dante stava fissando i vortici di luce dorata generati da un piccolo Mastromodellatore che stringeva in mano. Bill Waldstein era appoggiato contro lo schienale della sedia, intento a contemplare la fiasca di vino che aveva davanti, Patel sembrava smarrito in qualche meditazione, Dan Robinson stava giocherellando con la sua tastiera tascabile, intasando di musica inaudibile i circuiti del registratore, per riascoltarla più tardi. Si raddrizzarono tutti mentre Elszabet prendeva posto a capotavola.

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