Robert Silverberg - L'ora del passaggio

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Nel 2103 l’umanità ha scongiurato l’olocausto nucleare, ma l’impiego selettivo di una micidiale polvere radioattiva ha comunque segnato il destino della civiltà. Sulla costa occidentale degli Stati Uniti, in un desolato scenario di angoscia e disperazione, si aggira Tom O’Bedlam, un vagabondo mite e visionario. Dotato di strani poteri Tom è immerso in estatiche visioni di gerarchie celesti, imperi galattici, fantastiche creature e meravigliosi paesaggi alieni, al di là di enormi distese di tempo e di spazio. Ma chi è realmente Tom O’Bedlam? Un pazzo invasato, un mutante telepatico, o il profeta di una nuova rivelazione? Le strane visioni acquistano un nuovo significato quando nella mente di altri personaggi affiorano lentamente sogni e allucinazioni ricorrenti che proiettano le stesse immagini di cui parla Tom. Estasi e angoscia, stupore e inquietudine, ognuno reagisce in modo diverso allo strano fenomeno, ma l’effetto è incontrollabile e nessuno sembra sfuggirvi: Elszabet, direttrice di un’isolata clinica psichiatrica; Charley, capo di una banda di razziatori; Jaspin, un antropologo fallito; Senhor Papamacer, fondatore di un culto messianico che attira migliaia di fanatici. Quando una sonda lanciata molto tempo prima raggiunge Proxima Centauri e rimanda le immagini di uno dei mondi evocati da Tom, non sembrano esserci più dubbi… Ma il tempo della trasmigrazione è ormai prossimo, e Tom si prepara a compiere il rito finale, nel quale a tutti sarà concesso di raggiungere quei mondi di sogno e di beatitudine. Ma qual è il significato di quest’ultima esperienza? Il segreto dell’immortalità e della trascendenza o la fuga allucinata da un mondo di follia e disperazione?
Con questo romanzo stimolante e provocatorio, Robert Silverberg ritorna finalmente dopo molti anni ai temi della sua migliore fantascienza.

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— Cos’è stato? Cos’è successo?

— Non lo so — mormorò lei. — Qualcosa mi ha colpito tutt’a un tratto, una sorta di allucinazione. Non so. Qualcosa di bizzarro per un secondo o due, e sono svenuta, credo. — Non voleva dirgli della verde nebbia lanosa. Già l’idea che si fosse trattato di un’immagine del Mondo Verde che aveva cercato di penetrare nella sua coscienza le sembrava assurda, una sciocca fantasticheria orrorifica. E anche se era accaduto, non osava confessarlo a Dan Robinson. Certo, lui si sarebbe mostrato comprensivo. Sarebbe stato perfino invidioso. Ripensò a come, soltanto mezz’ora prima, aveva dichiarato quanto gli dispiacesse di non essere mai stato tanto fortunato da fare uno dei sogni spaziali. Ma la sua prospettiva su questa faccenda era del tutto diversa. Per la prima volta i sogni la spaventavano. Che li facesse pure Padre Christie; che li facesse pure April Cranshaw; che li facesse pure Nick Doppio Arcobaleno. Si trattava d’individui emotivamente instabili: per loro, le allucinazioni erano all’ordine del giorno. Che li facesse pure anche Dan, se lo desiderava. Ma non io. Per favore, Dio, non io.

Adesso si era rivestita. Ma era ancora gelata fino alle ossa da quel tuffo nel Pacifico. Robinson si trovava a cinque o sei metri di distanza. La fissava, e faceva del suo meglio per non mostrarsi troppo preoccupato per lei. Elszabet si costrinse a sorridere. — Forse ho bisogno di una vacanza — disse. — Mi spiace di averti scombussolato.

— Ti senti bene, adesso?

— Sto bene. È stata soltanto una cosa molto rapida. Non so. Càspita, se è fredda quell’acqua!

— Possiamo tornare al Centro?

— Sì. Per favore, sì.

Dan le offrì una mano per aiutarla ad arrampicarsi su per il dirupo. Elszabet lo respinse con rabbia e salì il sentiero come una capra di montagna. Giunta in cima si fermò solo per un istante per risistemarsi la coperta intorno alla cintura, poi si allontanò senza aspettarlo, mettendosi a correre a una velocità da sprint lungo la strada in direzione del Centro.

— Ehi, arrivo! — gridò lui, ma lei rifiutò di rallentare e senza nessuna misericordia verso se stessa continuò a correre spingendosi al limite delle proprie forze. Non avrebbe permesso che lui la raggiungesse. Quando arrivò al Centro si sentiva stordita e col fiato mozzo, ma era arrivata con cento metri di vantaggio su di lui.

Non rallentò finché non ebbe raggiunto il suo ufficio. Una volta dentro, sbatté la porta alle proprie spalle, cadde sulle ginocchia e rimase lì rannicchiata sul pavimento, tremando, fino a quando non fu sicura che non avrebbe vomitato. Gradualmente il cuore smise di martellarle e il respiro tornò normale. Cose terribili stavano accadendo ai muscoli delle sue cosce. Sollevò lo sguardo sulla sua dati-parete. Diceva che c’era un messaggio per lei. Lo chiamò: Grazie per le informazioni. La nostra lista di sogni è esattamente la stessa; seguirà un’analisi dettagliata. Voci di sogni analoghi sono giunte dal sud, da zone lontane come San Diego. Sto controllando. Ulteriori informazioni più avanti. Cosa sta succedendo, in nome di Dio? Era firmato: Paolucci, San Francisco.

TRE

Con un pensiero che scambiai per sentimentale
e una scodella di frutti di mare,
con una cosa tanto eccezionale,
che il cielo vi benedica tutti,
mi sono rimbambito.
Non ho dormito fin dai tempi della Conquista,
e neppure mi sono mai svegliato,
fino a quando quel furfantesco amorino
mi trovò là dove giacevo,
e mi denudò.

Mentre io canto
«Un po’ di cibo, qualcosa da mangiare,
da mangiare, da bere o da vestire.
Vieni, dama o fanciulla,
non aver timore,
il povero Tom non farà male a nessuno».

Canto di Tom o’ Bedlam

1

Il furgone rosso e giallo a effetto-suolo stava fluttuando verso occidente, sempre più verso occidente. I grattatori non avevano voluto restare nella valle di San Joaquin dopo le uccisioni alla fattoria vicina alla biforcazione del fiume. Così avevano deciso, appunto, di proseguire verso occidente, su un carro d’aria, aleggiando un po’ al di sopra del fondo stradale dell’August. Tom si sentiva come un re, a viaggiare così. Salomone che avanzava con maestoso incedere.

L’avevano lasciato sedere davanti accanto al conducente. Charley guidava per qualche tratto, e Buffalo, e a volte quello chiamato Nicholas, il quale aveva un volto liscio da ragazzo e capelli completamente bianchi, e che se ne stava quasi sempre zitto. Di tanto in tanto guidavano anche Mujer, o Stidge, Tamale non guidava mai, e neppure lui, Tom. Comunque, per la maggior parte del tempo il guidatore era Rupe, nerboruto, le spalle ampie e il viso rosso. Se ne stava seduto, lì, per ore e ore, stringendo la sbarra. Quando Rupe guidava il furgone, questo non deviava mai, neppure d’un pelo, dal rettifilo della strada. Ma a Rupe non piaceva che Tom si mettesse a cantare quando lui guidava. A Charley invece sì: gli chiedeva sempre nuove canzoni durante i suoi turni. — Tira fuori quella tua vecchia tastiera, amico — gli diceva Charley, e Tom si metteva a frugare nello zaino. Aveva ricevuto il dita-piano giù vicino a San Diego tre anni prima, da uno dei profughi africani che si trovavano da quelle parti. Era soltanto una tavoletta cava con delle piastrine metalliche appoggiate sopra, ma Tom aveva imparato a farlo suonar bene come una chitarra: intonava le melodie palpeggiando le piastrine con i pollici. Conosceva le parole di un bel po’ di canzoni. Di molte canzoni non conosceva la musica, ma ormai aveva fatto abbastanza pratica così da potersi inventare delle melodie adatte alle parole. La sua voce era quella limpida d’un tenore. Alla gente piaceva ascoltarla, a tutti fuorché a Rupe. Ma questo era giusto. Non doveva disturbare Rupe mentre guidava.

O padrona mia, dove te ne vai?
Oh, rimani e ascolta! Il tuo vero amore arriva,
e canta acuto e basso.
Non andar oltre, soave dolcezza.
I viaggi finiscono in incontri amorosi:
il figlio di qualsiasi saggio lo sa.

— Ma dove le peschi, ’ste canzoni? — gli chiese Mujer. — Mai sentito canzoni del genere.

— Una volta ho trovato un libro — disse Tom. — Ho imparato un mucchio di poesie a forza di leggerlo. Poi, io ho inventato la musica.

— Non c’è da stupirsi se non ho mai sentito una sola di queste canzoni, allora — dichiarò Mujer. — No, non c’è proprio da stupirsi.

— Canta quella della spiaggia — intervenne Charley. Stava seduto alla destra di Tom. Mujer era alla guida, e Tom si trovava stretto fra i due sul sedile anteriore. — Mi è molto piaciuta. Quella triste, con la spiaggia al chiaro di luna. — Adesso si stavano avvicinando a San Francisco, forse ci sarebbero volute altre quattro o cinque ore, aveva detto Charley. C’erano un sacco di cittadine, là fuori, e la maggior parte erano abitate, anche se una su tre, all’incirca, erano state abbandonate molto tempo prima. Il suolo era ancora secco e caldo, la mano pesante dell’estate premeva ancora. L’ultima volta che erano scesi dal furgone, quella mattina verso le undici, Tom aveva sperato di sentire la prima fresca brezza soffiare da occidente, e di vedere sfilacciature di nebbia aleggiare nella loro direzione. L’aria di San Francisco, pulita e fresca. No, aveva detto Charley: tu non senti l’aria di San Francisco finché non sei arrivato là, e poi cambia tutt’a un tratto, un momento prima puoi magari arrostire, poi sbuchi fuori dalla galleria delle colline e fa fresco. È un tipo d’aria completamente diverso.

Tom vi si stava preparando, cominciava ad essere stanco del calore della valle. Le sue visioni si manifestavano meglio e più nitide quando l’aria era fresca… per qualche buon motivo.

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