7) Stella Doppia Tre Un rapporto.
Un sole molto simile al nostro per dimensioni e colore, più un secondo sole che irradia una luce rossa/arancione. È di dimensioni più grandi, ma più debole. Sistema complicato di lune. Non è stata riferita nessuna forma di vita.
— È comodo avere questa lista — commentò Robinson.
— Lo è, infatti — rispose Elszabet. E aggiunse, rivolto alla dati-parete: — Stampa Lista-Sogni. Distribuzione Canale Uno.
— Cosa fai, la stampi per farne il punto generale di riferimento, qui al Centro?
— È una buona idea. È la prossima cosa che farò.
— Cos’è, allora, la Distribuzione Canale Uno?
— La mando agli altri centri di mondatura della California del Nord — spiegò Elszabet.
Dan Robinson sgranò di nuovo gli occhi.
— Hai fatto questo?
— San Francisco, Monterey, Eureka. Li ho chiamati stamattina per dirgli quello che sta succedendo qui, e Paolucci a San Francisco mi ha detto che anche da loro sta succedendo qualcosa lungo le stesse linee, e che aveva saputo l’identica cosa da Monterey. Così, stiamo stabilendo un collegamento dati. Descrizione dei sogni, concordanza dell’incidenza. Dobbiamo sapere cosa, in nome di Dio, sta accadendo. Un’epidemia di sogni identici? È una cosa del tutto nuova nell’intera casistica delle turbe mentali. Se è davvero una turba mentale quella con cui abbiamo a che fare.
— Me lo sto appunto chiedendo — dichiarò Robinson. — Ci sarà un po’ di maretta, tu che comunichi questo agli altri centri, senza prima sollevare la questione durante una riunione dello staff.
— Lo credi? — Adesso i colpi dentro il suo cranio avevano raggiunto un livello impossibile di rimbombo. C’era qualcosa dentro che cercava di uscire? Così sembrava. — Scusami — disse Elszabet, e si diede un’irrorazione di alfa. Sentì le guance che le si arrossavano perché stava eseguendo quel tipo di modifica davanti a lui. Il dolore si alleviò soltanto un po’. Cercando di non sembrare irritata quanto in effetti era, disse rivolta a Robinson: — Non mi sembrava che fosse materia riservata. Volevo soltanto sapere se anche gli altri centri avevano a che fare con questo fenomeno, così ho cominciato a chiamarli, e loro hanno detto, sì, anche noi, mandateci i vostri dati e noi vi manderemo i nostri in cambio, e… Elszabet chiuse per un attimo gli occhi e strinse i denti con forza, esalando un profondo sospiro. — Ascolta, possiamo parlare di queste cose in un altro momento? Ho bisogno di un po’ d’aria fresca. Credo che andrò a fare una corsa giù alla spiaggia. Questo schifoso mal di testa!
— Buona idea — replicò Robinson, con gentilezza. — Anche a me farebbe bene un po’ d’esercizio. Ti spiace se vengo a correre con te?
Sì, mi spiace, lei pensò. E molto. La spiaggia era il suo posto tutto speciale, il suo secondo ufficio, in effetti. Cercava di scappare laggiù un paio di volte alla settimana, quando sentiva di aver bisogno di pensare seriamente, oppure voleva soltanto sfuggire alla pressione alla quale la sottoponevano i suoi doveri al Centro. La stupiva il fatto che Robinson, di solito molto sensibile, non riuscisse a capire che in quel momento lei non voleva nessuna compagnia, neppure la sua. Ma non riuscì a indursi a dirglielo. Un uomo così dolce, così bravo. Elszabet non voleva apparire di nuovo brusca con lui. È stato stupido da parte mia, si disse. Tutto quello che devi fare è dirgli che hai bisogno di restare sola: non si offenderà. Ma non poteva farlo. Riuscì a sorridere. — Certo. Perché no? — rispose, odiando se stessa per aver ceduto in quel modo. Gli fece un cenno. — Su, vieni. Andiamo.
La spiaggia non era gran cosa: una piccola insenatura rocciosa chiusa tra scogliere dalla cima piatta ricoperte da mesembriantemi. Si trovava soltanto a quattro chilometri dalla sezione principale del Centro, una simpatica e facile camminata giù per una stretta strada non pavimentata, fiancheggiata su ambo i lati da vistosi alberi di madronia dalla rossa corteccia, e da bassi arbusti di manzanita. Correvano fianco a fianco, muovendosi con scioltezza. La pulsazione nella testa di Elszabet cominciò a diminuire man mano che il ritmo del jogging prese il sopravvento. Elszabet non aveva nessun problema a tenersi al passo con lui, anche se le gambe di Robinson erano molto più lunghe. Al college, a Berkeley, lei era stata un’atleta, una velocista della squadra su pista, campionessa dello stato su ogni gara delle medie distanze, gli 800, i 1500, il miglio, e anche più. Le sue gambe scattanti, la resistenza, la determinazione. — Dovresti prendere in considerazione una carriera da velocista — le aveva detto qualcuno. Allora aveva avuto diciannove anni, quindici anni prima. Ma che significato aveva una carriera da velocista? Era uno sprecare la vita, pensò. Concedersi a qualcosa di ermeticamente chiuso, di privato, come l’attività di velocista. Era come dire: dovresti pensare a una carriera come cascata; dovresti pensare a una carriera come idrante. Era una cosa inutile da farsi con se stessi, andava bene per un po’ di disciplina personale o per un’attività extracurricolare all’università, ma non se ne faceva una carriera. Intraprendere una carriera, pensò, significava fare un uso vero della propria vita, il che voleva dire entrare nella corsa umana, non in quella dei 1500 metri. Bisognava giustificare la propria presenza sul pianeta offrendo qualcosa agli altri che si trovavano qui nello spazio e nel tempo, condividendoli con te, e il fatto di essere la ragazza più veloce della sua classe non significava neppure esser prossimi alla sufficienza. Lavorare al Centro per rimettere in sesto quei poveri individui scombussolati e spenti dalla sindrome di Gelbard, per poi diventarne alla fine responsabile: questa era una cosa assai più consona, pensò Elszabet.
Continuò a correre senza dire niente, quasi inconsapevole dell’uomo dalla pelle scura e dai movimenti sciolti che correva al suo fianco. C’era un sentiero ripido e accidentato che dalla cima del dirupo scendeva fino alla spiaggia. In sé, la spiaggia aveva sì e no abbastanza sabbia da poterci stendere sopra tre coperte, fianco a fianco. Durante l’inverno, all’alta marea, non c’era praticamente spiaggia, e se ci si andava, bisognava rannicchiarsi in una caverna scavata dall’oceano, con le onde gelide che finivano per lambirvi le dita dei piedi. Ma quello era un caldo pomeriggio d’estate. Nessuna nebbia. La marea era bassa. Lanciò oltre il dirupo la coperta da spiaggia che aveva portato con sé, e seguendola discese a sua volta, aiutandosi con le mani. Robinson la seguì dappresso, affrontando il sentiero con grandi balzi sicuri.
Quand’ebbero raggiunto la spiaggia, lei annunciò: — Adesso mi toglierò i vestiti. Qui di solito lo faccio sempre. — Lo fissò negli occhi… Un’occhiata che diceva: «Niente equivoci, non sto cercando di provocarti». E diceva anche: tu sei qui, d’accordo, ma in realtà vorrei che tu non ci fossi, e mi comporterò come se fossi qui da sola.
Lui parve capire. — Sicuro — replicò. — Per me va benissimo. — Si sfilò la camicia buttandola da parte, tenne addosso i jeans, si accovacciò accanto alle pozze create dalla marea all’estremità più alta della spiaggia. — Ci sono un paio di stelle marine qui — annunciò.
Elszabet annuì vagamente. Slacciò il reggipetto, lasciò cadere i calzoncini e s’incamminò, nuda, verso il bordo dell’acqua, senza guardare verso di lui. Piccole onde gelide turbinarono intorno alle dita dei suoi piedi.
— Hai intenzione di entrare? — le chiese Robinson.
Elszabet scoppiò a ridere. — Tu pensi che sia matta?
Lei non andava mai a nuotare in quel posto. Non lo faceva nessuno, inverno o estate che fosse. L’acqua, lì, era gelida come la morte per tutto il tempo dell’anno, come lo era lungo tutta la costa del Pacifico a nord di Santa Cruz, e una scura barriera corallina appena al largo rendeva la risacca turbolenta e invalicabile. Ciò andava benissimo a Elszabet. Se avesse avuto voglia di nuotare, c’era una piscina al Centro. La spiaggia significava altre cose per lei.
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