— Chungirà-Lui-Verrà — disse Senhor Papamacer, con la ben nota voce sotterranea, tre registri al disotto del basso. Quando parlava, niente si muoveva, salvo le sue labbra, e anche queste molto poco.
— Maguali-ga. Maguali-ga — rispose Jaspin. Un sorriso glaciale.
— Tu sei Jaspin. Siediti. Por favor.
Jaspin sentì un vento gelido spazzare la stanza. Sicuro, pensò: un vento gelido dentro una stanza senza finestre, a San Diego, in agosto. Sapeva che il vento non era reale: lo sapeva; ma il gelo che stava provando lo era. Manovrò per sedersi sul tappeto rosso e verde, riuscendo con qualche scricchiolio ad assumere la posizione del loto per uguagliare quella del Senhor Papamacer. Gli pareva che qualcosa stesse per scoppiargli in uno dei fianchi, ma si costrinse a conservare quella posizione. Era di nuovo spaventato, ma in una maniera molto calma.
Il Senhor Papamacer disse: — Perché sei venuto da noi tumbondé?
Jaspin esitò, poi rispose: — Perché questo è stato un periodo buio e tormentato della mia anima. E mi è parso, tramite Maguali-ga, di riuscire a trovare la giusta via.
Come spiegazione suona piuttosto bene, disse in silenzio tra sé.
Senhor Papamacer lo fissò senza parlare. I suoi occhi scuri e lucidi come ossidiana, lo scrutavano spietati.
— È merda quello che dici — dichiarò poi esplicitamente a Jaspin, scodellando le parole con calma, senza malizia né rancore, quasi con gentilezza. — Mi hai detto quello che pensi che io voglia sentire. No. Adesso mi dici perché professore bianco viene da tumbondé.
— Perdonami — disse Jaspin.
— Non c’è da perdonare niente — replicò Senhor Papamacer. — Tu prega Rei Ceupassear, lui dà perdono. A me, tu dai solo la verità. Perché vieni da noi?
— Perché non sono più un professore.
— Ah, bene, la verità.
— Lo ero. UCLA. Sì. — Era come parlare a un idolo di pietra. L’uomo era completamente impassibile, la più formidabile presenza che Jaspin avesse mai incontrato. Arrivato in California da qualche puzzolente, rissosa favela sul fianco d’una collina vicino a Rio de Janeiro, così dicevano, quando gli argentini avevano spolverato il Brasile, e adesso era venerato dalle moltitudini. E sedeva sul lato opposto di quel tappetino rosso e verde, quasi a portata di mano. — Hai lasciato UCLA. Quando?
— All’inizio dell’anno scorso.
— Ti hanno licenziato?
— Sì.
— Lo sappiamo. Sappiamo di te. Perché fatto questo, eh?
— Non mi presentavo a tenere le lezioni. Facevo un sacco di cose strane. Non so. Un periodo buio e tormentato nella mia anima. Davvero.
— Davvero. Sì. E tumbondé, perché?
— La curiosità — farfugliò Jaspin, e quando la parola gli uscì di bocca, fu come se la corda che lo stringeva intorno al petto si fosse spezzata. — Sono un antropologo. Ero. Sai cos’è, l’antropologia?
Lo sguardo gelido dell’altro gli disse che aveva commesso un grave errore.
Jaspin proseguì: — A volte non so se capisci le mie parole. Mi dispiace. Un antropologo. Anni di addestramento. Anche se non ero un professore, mi consideravo ancora come tale. — Il colore gli stava tornando alle guance. Prosegui, digli la verità, pensò. Ha il tuo numero, comunque. — Così, volevo studiarvi. Studiare il vostro movimento. Capire cos’è veramente questa cosa dei tumbondé.
— Ah. La verità. Fa sentire bene, la verità.
Jaspin sorrise, annuì. Il sollievo era enorme.
Senhor Papamacer disse: — Scrivi libri?
— Avevo in mente di scriverne uno.
— Tu non ancora scritto uno?
— Articoli. Saggi. Recensioni. Per riviste di antropologia. Non ho ancora scritto il mio libro.
— Scrivi un libro su tumbondé?
— No — disse lui. — Non adesso. Pensavo che forse l’avrei fatto, ma adesso non lo farei più.
— Perché no?
— Perché ho visto Chungirà-Lui-Verrà — spiegò Jaspin.
— Ah. Ah. Anche questa è la verità. — Di nuovo un lungo silenzio, ma non gelido. Jaspin si sentiva totalmente alla mercé di quello strano ometto. Era del tutto terrorizzante, questo Senhor Papamacer. Alla fine disse, come da una distanza remota: — Chungirà-Lui-Verrà, lui verrà.
Jaspin diede la risposta rituale: — Maguali-ga. Maguali-ga.
La collera balenò in quegli occhi di ossidiana: — No, adesso intendevo qualcos’altro! Lui verrà , sto dicendo. Presto. Marceremo verso nord. Ce ne andremo, ormai, uno di questi giorni, o quasi. Dieci, cinquantamila di noi, non so, centomila. E giunto il tempo del Settimo Posto, Jaspin. Andremo verso nord. California. Oregon. Washington. Canada. Fino al Polo Nord. Sei pronto?
— Sì. Davvero.
— Davvero, sì. — Il Senhor Papamacer si sporse in avanti. I suoi occhi avvampavano. — Ti dirò cosa fare. Tu marci con me, con Senhora Aglaibahi, con il Nucleo Interno. Tu scrivi il libro sulla marcia. Tu hai le parole, hai il sapere. Qualcuno deve raccontare la storia per quelli che vengono dopo, come fu Papamacer ad aprire la strada a Chungirà-Lui-Verrà. Questo è quello che voglio, che tu marci accanto a me e racconti quello che abbiamo fatto. Tu, Jaspin. Tu! Ti abbiamo visto sulla collina. Abbiamo visto il dio entrare dentro di te. E tu hai le parole, tu hai la testa. Sei un professore e sei anche un tumbondé. È la verità. Tu sei il nostro uomo.
Jaspin lo fissò.
— Di’ quello che farai — disse Senhor Papamacer. — Rifiuti?
— No. No. No. No. Lo farò. Da luglio mi sono impegnato a partecipare alla marcia. Davvero. Tu sai che sarò là. Sai che scriverò quello che vorrai.
Con calma, il Senhor Papamacer disse, con una voce ricca di bui misteri al di là della comprensione di Jaspin: — Io ho camminato con i veri dèi, Jaspin. Conosco le Sette Galassie. Gli dèi sono veri dèi. Io chiudo gli occhi ed essi vengono a me… e adesso, quando neppure sono chiusi. Tu dirai questo, la verità?
— Si.
— Hai visto tu stesso gli dèi?
— Ho visto Chungirà-Lui-Verrà. Le corna. Il blocco di pietra bianca.
— In cielo, cosa c’è?
— Un sole rosso… da qui a qui. E da questa parte un sole azzurro.
— È la verità. Tu hai visto. Non gli altri.
— Non gli altri. No.
— Lo farai. Li vedrai tutti, Jaspin. A mano a mano che marciamo, tu vedrai ogni cosa, le Sette Galassie. E scriverai la storia. — Il Senhor Papamacer sorrise. — Tu dirai solo la verità. Sarà molto male per te se non lo farai, tu capisci? La verità, solo la verità. Altrimenti quando il cancello sarà aperto, Jaspin, ti consegnerò agli dèi che servono Chungirà-Lui-Verrà, e gli dirò quello che hai fatto. Sai, non tutti gli dèi sono gentili. Tu non scrivi la verità? Ti darò a degli dèi che non sono gentili. Lo sai, Jaspin. Lo sai. Ti dico questo: non tutti gli dèi sono gentili.
Il giro del mattino, uno dei compiti regolari. La routine era importante, qualcosa di fondamentale per l’intera struttura, per loro e talvolta perfino per lei. In questo momento specialmente per lei. Passare attraverso i dormitori, stanza per stanza, controllare che tutti i pazienti uscissero, vedere come se la cavano dopo che la loro mente tornava dalla mondata mattutina. Fargli coraggio se era possibile. Farli sorridere un po’. Sarebbe servito ad aiutare la loro ripresa, se avessero sorriso un po’ di più. Il sorriso era una cura ben nota per un mucchio di cose: attivava lo scorrere verso l’esterno degli ormoni placanti, ecco cosa faceva quella piccola contrazione dei muscoli facciali, faceva schizzare ogni tipo di sostanze benefiche nei loro stanchi flussi sanguigni.
Anche tu… si, anche tu dovresti sorridere un po’ più spesso, pensò Elszabet.
Stanza Sette. Ferguson. Menendez. Doppio Arcobaleno. Bussò. — Posso entrare? Sono la dottoressa Lewis.
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