Robert Silverberg - L'uomo stocastico

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Stocastico: voce dotta, dal greco stochestikos, congetturale, dovuto al caso, aleatorio. Questo dice il dizionario. Ma Robert Silverberg dice di più. Dice che uno specialista di indagini conoscitive e di statistiche previsionali, un professionista della congettura, un mago del calcolo delle probabilità, può tutto a un tratto scoprire la vera natura del suo talento. E questo talento non ha niente a che fare con la scienza dei numeri, col buon senso, con il fiuto commerciale e politico. È un dono naturale che, coltivato opportunamente, permette all’uomo stocastico di vedere In come in una sfera di cristallo, il futuro. Chi vincerà la terza corsa all’ippodromo? Chi sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti? Come e quando arriverà la nostra morte? Mai come in questo romanzo l’antico sogno dell’umanità è stato presentato con tanta acutezza psicologica, con un casi vivo senso di ciò che potrebbe essere, in concreto, la vita di un autentico veggente.

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Manhattan. È autunno, fa fresco, il cielo è scuro, le finestre sono illuminate. Davanti a me una torre colossale che si erge a est della vecchia biblioteca della Quinta Avenue.

“La più alta del mondo” dice qualcuno alle mie spalle, sicuramente un turista che sta parlando a un altro turista con il tipico accento nasale dell’ovest. La torre riempie tutto il cielo. “Sono tutti uffici governativi” continua il tizio dell’ovest. “Ti rendi conto? Duecento piani e tutti uffici governativi. E in cima c’è un intero palazzo per Quinn, dicono. Per quando viene in città. Accidenti, un palazzo, come per un re.”

Ciò che temo maggiormente, quando le visioni mi si affollano davanti, è il primo impatto con la scena della mia morte.

Ne uscirò distrutto, mi chiedo, com’è successo a Carvajal, ogni energia, ogni proposito risucchiati via da un unico lampo dei miei ultimi momenti? Intanto aspetto, chiedendomi quando arriverà, temendolo e bramandolo nello stesso tempo, desideroso di assorbire quella terrificante certezza e farla finita; e quando arriva è una comica delusione. Ciò che “vedo” è un vecchio consunto e stanco in un letto d’ospedale, scarno ed esausto, di 75 anni, forse 80, forse 90. È circondato dal bozzolo lucente di una macchina che lo mantiene in vita; bracci appuntiti si inarcano e si intrecciano intorno a lui come code di scorpione, imbottendolo di enzimi, decongestionanti, stimolanti. L’ho già visto in precedenza, per un attimo, quella notte della sbronza a Times Square, quando mi rannicchiai, intontito e sbigottito, immerso in un torrente di voci e immagini, ma ora la visione dura più a lungo dell’altra volta, e posso vedere il mio futuro io, non solo come un vecchio ammalato ma come un vecchio morente, giunto ormai alla porta d’uscita, e tutta quella enorme, meravigliosa grata di dispositivi medici non riesce più a prolungare il debole battito di vita. Posso persino sentire le pulsazioni rifluire. Tranquillamente, serenamente se ne sta andando. Verso l’oscurità. Verso la pace. È immobile. Non ancora morto, altrimenti non lo potrei più vedere.

Ma quasi. Quasi. Adesso. La percezione è finita. Pace e silenzio. Una buona morte, sì.

È tutto qui? È davvero morto, a cinquanta o sessant’anni da oggi, o la visione si è soltanto interrotta? Non ne sono sicuro. Se solo riuscissi a vedere oltre quel momento di quiete, solo un lampo di ciò che c’è oltre la tenda, per osservare la routine della morte, gli inservienti inespressivi che disattivano placidamente il dispositivo che mantiene in vita, il cadavere inviato all’obitorio. Ma non c’è modo di inseguire quest’immagine. Il film finisce con l’ultimo guizzo di luce. Sono comunque sicuro che è proprio la morte.

Sono sollevato e quasi deluso. Tutto qui? Scivolare via a un’età veneranda? Niente di spaventoso. Penso a Carvajal, allucinato per aver visto troppe volte se stesso morire. Ma io non sono Carvajal. Come può ferirmi una tale certezza? Ammetto l’inevitabilità della mia morte; i particolari sono semplici postille. La scena ritorna, poche settimane dopo, e poi ancora e ancora. Sempre uguale. L’ospedale, il labirinto intricato di fili, la sensazione di scivolare via, l’oscurità, la pace. Dunque, non c’è nulla da temere nella facoltà di “vedere”. Ho visto la cosa peggiore e non mi ha fatto male.

Ma poi tutto ripiomba nel dubbio e la fiducia di poco fa va in pezzi. Mi “vedo” di nuovo sul grande aeroplano, mentre scendiamo verso l’isola esagonale. L’assistente di cabina si precipita nel corridoio, turbata, spaventata e alle sue spalle si gonfia una nuvola di denso fumo nero. Fuoco a bordo!

Le ali dell’aereo si abbassano vertiginosamente. Si sentono urla ovunque. Grida soffocate provengono dall’altoparlante centrale. Istruzioni inintelligibili, incoerenti. La pressione inchioda il mio corpo al sedile; stiamo precipitando verso l’oceano. Giù, giù, e poi l’impatto, uno schianto incredibile e l’aereo si squarcia; sempre inchiodato alla poltrona, precipito a faccia in giù nella fredda e scura profondità. Il mare mi inghiotte e non so più niente.

Soldati marciano per le strade schierati in sinistre colonne. Si fermano all’altezza dell’edificio in cui vivo; confabulano tra di loro; poi una pattuglia irrompe nella casa. Li sento salire le scale. Nessuna possibilità di potersi nascondere. Spalancano la porta, gridando il mio nome. Li saluto, con le mani in alto. Sorrido e dico loro che li seguirò senza opporre resistenza. Ma poi chissà perché? — uno di loro, uno molto giovane, un ragazzino, rotea su se stesso puntandomi contro l’arma a forma di balestra. Ho solo il tempo di aprire la bocca. Poi mi vedo venire incontro un bagliore verde e quindi il buio.

— È lui! — urla qualcuno, sollevando un bastone e abbattendolo sulla mia testa con forza terribile.

Sundara e io osserviamo la sera scendere sul Pacifico. Le luci di Santa Monica brillano davanti a noi. Timidamente, con imbarazzo, poso la mia mano sulla sua. In quello stesso momento sento un dolore lancinante al petto, mi piego, vacillo, scalcio freneticamente, rovesciando il tavolo, batto i pugni contro lo stesso tappeto, lotto per rimanere in vita. Sento in bocca sapore di sangue. Lotto per vivere e perdo.

Sono in piedi su un parapetto, ottanta piani sopra Broadway.

Con un movimento rapido e facile mi lancio nella fresca aria primaverile. Galleggio, muovo ritmicamente le braccia come se nuotassi e mi tuffo serenamente verso l’asfalto.

— Attenti! — urla una donna vicino a me. — Ha una bomba!

Il mare è grosso oggi. Onde grigie si sollevano e si frangono, si sollevano e si frangono. Eppure, nuoto verso il largo; mi faccio strada tra i marosi; nuoto con folle accanimento verso l’orizzonte, fendendo il mare freddo come se dovessi stabilire un record di durata, una bracciata dopo l’altra nonostante le tempie mi pulsino e senta dei battiti furiosi alla base della gola; il mare diventa sempre più grosso, la sua superficie si gonfia e si alza anche qui, così lontano dalla riva. L’acqua mi colpisce in viso, vado sotto, soffoco, riesco a riemergere e l’acqua mi colpisce ancora, ancora, ancora…

— È lui! — urla qualcuno.

“Vedo” di nuovo me stesso nell’aeroplano e stiamo precipitando verso l’isola artificiale esagonale.

— Attenti! — grida una donna vicino a me.

Soldati marciano per le strade schierati in sinistre colonne. Si fermano all’altezza dell’edificio in cui abito.

Il mare è grosso oggi. Onde grigie si sollevano e si frangono, si sollevano e si frangono. Eppure, nuoto verso il largo, mi faccio strada tra i marosi, nuoto con folle accanimento verso l’orizzonte.

— È lui! — urla qualcuno.

Sundara e io osserviamo la sera scendere sul Pacifico. Le luci di Santa Monica brillano davanti a noi.

Sono in piedi su un parapetto, ottanta piani sopra Broadway. Con un movimento rapido, facile mi lancio nella fresca aria primaverile.

È lui! — grida qualcuno.

Così, sempre. Morte, ancora e ancora, che mi arriva sotto forme diverse. Scene ricorrenti, immutabili, che si contraddicono e si annullano l’un l’altra. Qual è la visione vera? Che ne è del vecchio che spira in pace nel letto d’ospedale?

A quale credere? Sono stordito da un eccesso di dati; brancolo in preda a febbre schizofrenica, “vedendomi” più di quanto possa comprendere, senza riuscire a collegare qualcosa, e con il cervello che continua a passarmi scene e immagini. Sono a pezzi. Mi rannicchio sul pavimento, vicino al letto, tremando in attesa della prossima confusione. Come morirò la prossima volta? Alla ruota della tortura? Di peste?

O per una coltellata in un viale buio? Cosa significa tutto questo? Cosa mi sta succedendo? Ho bisogno di aiuto. Disperato, atterrito, corro da Carvajal.

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