Robert Silverberg - L'uomo stocastico

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Stocastico: voce dotta, dal greco stochestikos, congetturale, dovuto al caso, aleatorio. Questo dice il dizionario. Ma Robert Silverberg dice di più. Dice che uno specialista di indagini conoscitive e di statistiche previsionali, un professionista della congettura, un mago del calcolo delle probabilità, può tutto a un tratto scoprire la vera natura del suo talento. E questo talento non ha niente a che fare con la scienza dei numeri, col buon senso, con il fiuto commerciale e politico. È un dono naturale che, coltivato opportunamente, permette all’uomo stocastico di vedere In come in una sfera di cristallo, il futuro. Chi vincerà la terza corsa all’ippodromo? Chi sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti? Come e quando arriverà la nostra morte? Mai come in questo romanzo l’antico sogno dell’umanità è stato presentato con tanta acutezza psicologica, con un casi vivo senso di ciò che potrebbe essere, in concreto, la vita di un autentico veggente.

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6

Dal settembre 1997 alla fine dell’inverno del 2000.

Sette o otto mesi fa, nel giugno 2000, cominciai a essere ossessionato dall’idea di fare eleggere Paul Quinn Presidente degli Stati Uniti.

“Ossessionato”. È una parola forte. Fa pensare a Sacher-Masoch, Krafft-Ebing, ad abluzioni rituali e indumenti intimi di gomma. Eppure, credo che sia la parola adatta a descrivere i miei rapporti con Paul Quinn e le sue ambizioni.

Fu Haig Mardikian a presentarmi a Quinn, nell’estate del 1995. Haig e io abbiamo frequentato la stessa scuola privata, la Dalton, intorno al 1980-82, dove abbiamo praticato molta pallacanestro, e da allora siamo sempre rimasti in contatto. Haig è un ottimo avvocato dagli occhi di lince, alto circa tre metri, che vuole diventare, tra le altre cose, il primo Ministro della Giustizia degli Stati Uniti di stirpe armena, e probabilmente ci riuscirà. (Probabilmente? Come posso dubitarne?) Mi telefonò in un afoso pomeriggio d’agosto.

— Sarkisian dà una gran festa stasera — mi disse. — Sei invitato anche tu. Ti prometto che ci sarà qualcosa di interessante per te.

Sarkisian è un operatore in beni immobili che, dicono, è padrone delle due rive del fiume Hudson per sei o settecento chilometri.

— Chi ci sarà? Oltre a Ephrikian, Missakian, Hagopian, Manoogian, Garabedian e Boghosian, naturalmente.

— Berberian e Khatisian. E… — e Mardikian sciorinò un elenco abbagliante di celebrità del mondo della finanza, della politica, industria, scienza e delle arti, terminando con: — … e Paul Quinn.

C’era un’enfasi molto significativa su quel nome finale.

— Dovrei sapere chi è, Haig?

— Già, ma al momento attuale probabilmente non lo sai. In questo momento è il deputato di Riverdale. Un uomo che farà strada nella vita pubblica.

— A che ora è la festa?

— Alle nove.

E così andai a casa di Sarkisian: un triplice attico in cima a una torre condominiale circolare di 90 piani in alabastro e onice posta su una piattaforma sul fiume, al largo del Lower West Side. Guardie dalla faccia inespressiva, che avrebbero potuto benissimo essere dei robot di plastica e metallo, controllarono la mia identità, mi perquisirono e infine mi lasciarono entrare. L’aria, all’interno, era carica di una nebbiolina azzurra. L’odore aspro e aromatico di osso in polvere dominava ogni cosa: si fumava calcio drogato quell’anno.

Finestre ovali di cristallo, simili a enormi oblò, si aprivano sulle pareti circolari di tutto l’appartamento. Nelle stanze che guardavano a oriente la vista era chiusa dalle due fette monolitiche del World Trade Center, ma nelle altre Sarkisian offriva un panorama di 270 gradi del Porto di New York, del New Jersey, della Superstrada del West Side e qualcosa della Pennsylvania.

Solo in una delle enormi stanze a forma di cuneo i vetri degli oblò erano opachi, e capii il perché quando entrai nel cuneo adiacente e sbirciai fuori da una stretta angolatura: quel lato della torre si trovava di fronte al moncone non ancora demolito della Statua della Libertà, e Sarkisian evidentemente non voleva che quello spettacolo deprimente intristisse i suoi ospiti. (Eravamo nell’estate del ’95, non dimenticate, uno degli anni più violenti di quel decennio e i bombardamenti avevano scosso i nervi a tutti.)

Gli ospiti! Erano, come previsto, una folla spettacolare e variopinta di contrasti, astronauti, capitani d’industria e presidenti di consigli di amministrazione. Gli abiti tendevano al vistoso-formale con la prevedibile ostentazione di seni e organi genitali, ma c’erano anche i primi accenni, da parte di chi ci teneva a essere all’avanguardia, del gusto “fin de siècle” per la moda pudica, oggi dominante, con abiti accollati e “bandeaux” attillati. Qualche uomo e parecchie donne ostentavano un abbigliamento clericale e ci dovevano essere una quindicina di pseudo-generali decorati con un numero di medaglie sufficienti a far arrossire di vergogna un dittatore africano. Io ero vestito abbastanza semplicemente, almeno mi pareva, con una camiciola senza pieghe verde-radiazione e una collana di bolle a tre giri. Benché le stanze fossero affollate di ospiti, l’andamento della festa era perfetto; infatti notai otto o nove tizi robusti, bruni e impeccabili, in abiti severi (sicuramente uomini-chiave della onnipresente mafia armena di Mardikian), che, distribuiti in modo equidistante nella sala principale come altrettanti attaccapanni, pali di una porta di calcio o piloni, occupavano una posizione fissa prestabilita e offrivano premurosamente da fumare o da bere, facevano le presentazioni e indirizzavano gli ospiti verso altri ospiti che avrebbero avuto piacere di conoscere. Mi lasciai attirare facilmente in questa sottile ragnatela, ebbi la mano semistritolata da Ara Garabedian o Jason Komurjian o George Missakian e mi ritrovai nella stessa orbita, in fase di collisione, di una giovane donna dal viso splendente, i capelli biondi e di nome Autumn, con cui ritornai a casa molte ore dopo.

Molto prima che Autumn e io arrivassimo a questo, comunque, ero passato, di gomitata in gomitata, attraverso una lunga rotazione di compagni di chiacchiere, durante la quale…

…mi ritrovai a parlare con una persona di sesso femminile, negra, arguta, favolosamente bella e più alta di me di mezzo metro, che immaginai essere, con ragione, Ilene Mulamba, direttrice di Rete Quattro, che mi procurò un contratto per la progettazione delle loro trasmissioni nella fascia etnica a segnale diviso…

…declinai gentilmente le scherzose avance del Consigliere Comunale Ronald Holbrecht, la sedicente Voce della Comunità Omosessuale e primo uomo che fosse riuscito, fuori della California, a vincere un’elezione con l’appoggio del Partito Omofilo…

…mi smarrii in una conversazione tra due uomini alti dai capelli bianchi che sembravano dei banchieri e che scoprii essere due specialisti in bionergetica di Bellevue e Columbia-Presbyterian, mentre si scambiavano pettegolezzi sul lavoro di sonopuntura che stavano svolgendo in quel periodo e che riguardava il trattamento ultrasonico dei tumori ossei maligni a stadio avanzato…

…ascoltai un funzionario dei Laboratori CBS che parlava a un giovane dagli occhi sporgenti del loro nuovissimo occhiello metallico ad alimentazione biologica per il potenziamento delle doti carismatiche…

… appresi che il giovane dagli occhi sporgenti era Lamont Friedman della malfamata e poliedrica società finanziaria di investimenti delle Asgard Equities…

… scambiai quattro chiacchiere senza senso con Noel MacIver della Spedizione Ganimede, con Claude Parks della Sezione Narcotici (che si era portato dietro il suo sassofono molecolare e non aveva bisogno di molto incoraggiamento per suonarlo), con tre campioni del basketball professionistico e un astro nascente del cricket nazionale, con una promotrice della nuova lega per gli incarichi pubblici alle prostitute, con un ispettore comunale delle case di tolleranza, con una frotta di funzionari municipali di poco conto e con il Direttore del Museo di Brooklyn delle Arti Incarnate, Meiling Pulvermacher…

… incontrai per la prima volta un apostolo della Dottrina del Transit, la piccola ma energica Catalina Yarber che tentò di convertirmi “ipso facto”, tentativi a cui mi opposi con delle scuse piuttosto evasive…

… e incontrai Paul Quinn.

Quinn, proprio lui. Talvolta mi sveglio, tremante e sudato, dopo aver sognato, come in un “playback”, quella festa, in cui mi vedo trasportato da una irresistibile corrente attraverso un mare di celebrità in lacrime verso la radiosa, sorridente figura di Paul Quinn che mi aspetta, come Cariddi, con gli occhi brillanti e le mandibole spalancate. Allora Quinn aveva 34 anni, cinque più di me, ed era un uomo tozzo e robusto, biondo, dalle spalle ampie e con grandi occhi azzurri, un sorriso cordiale, abiti severi e tradizionali, una stretta di mano forte e virile che vi afferrava, oltre alla mano, anche l’interno del bicipite, un modo di agganciare il vostro sguardo che sembrava quasi produrre uno scatto sonoro e che stabiliva un rapporto istantaneo.

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