La mia crisi dei valori mi aveva riafferrato. Ero bloccato nel mio lavoro, e mi ero rifugiato da Jack e Shirley. Poco prima di Natale chiusi il mio ufficio, feci sospendere la consegna della posta, e mi autoinvitai in Arizona per un soggiorno di durata indefinita. Il mio programma di lavoro non era sincronizzato con i semestri e le vacanze dell’Università; lavoro quando ne ho voglia, e mi fermo quando ne ho bisogno.
Ci vogliono tre ore per andare da Irvine a Tucson. Caricai la macchina su un veicolo da trasporto diretto oltre le montagne, e mi lasciai trascinare verso Est lungo la rotaia scintillante, programmata per i viaggi brevi. Il cervello ticchettante nella Sierra Nevada fece il resto; nella sua onniscienza mi staccò al momento giusto dal percorso per Phoenix, mi dirottò su quello per Tucson, mi fece decelerare dalla velocità di cinquecento chilometri orari, e mi scaricò sano e salvo al deposito, dove i comandi manuali della macchina vennero riattivati. Era dicembre e, sulla Costa, pioveva e faceva piuttosto freddo, ma lì il Sole splendeva allegramente e la temperatura era intorno ai trenta gradi. Mi fermai a Tucson per ricaricare la batteria della macchina, sottraendo alla Southern California Edison qualche dollaro d’introito perché avevo dimenticato di provvedere prima della partenza. Poi mi avventurai nel deserto. Seguii la vecchia Interstatale 89 per il primo tratto, dopo quindici minuti mi immisi su di una strada di contea e poi lasciai anche quella modesta arteria per un semplice vaso capillare che portava in quell’angoletto disabitato di deserto. Quasi tutta la zona appartiene agli indiani Papago, e per questo è sfuggita all’epidemia dell’incremento edilizio che avviluppa Tucson; e non so bene come avessero fatto Shirley e Jack ad acquistare il loro piccolo pezzo di terra. Ma erano soli, per quanto possa sembrare incredibile alla vigilia del secolo ventunesimo. Ci sono ancora posti così, negli Stati Uniti, dove uno si può ritirare come avevano fatto quei due. L’ultimo tratto di quaranta chilometri era una pista sterrata e sassosa che poteva venire chiamata strada solo con un’acrobazia semantica. Il tempo si dileguò; era come se seguissi il percorso di uno dei miei elettroni, a ritroso, verso l’alba del mondo. Era il vuoto, ed aveva il potere di estrarre il tormento da un’anima angosciata, come una pompa che sottrae il calore e placa la danza delle molecole.
Arrivai a pomeriggio inoltrato. Dietro di me si stendevano solchi profondi e terreno riarso. Alla mia sinistra s’innalzavano montagne purpuree cinte di nuvole, che deviavano verso il confine messicano, e guidavano il mio occhio verso il deserto piatto e sassoso in cui la casa dei Bryant rappresentava l’unica intrusione moderna. Un torrente in secca, in cui da secoli non scorreva più l’acqua, cingeva la loro proprietà. Parcheggiai la macchina lì accanto e mi avviai verso la casa.
I Bryant vivevano in una villa che aveva una ventina d’anni, fatta di mogano e vetro, alta due piani, con una terrazza sul retro. Sotto l’edificio c’era il suo organismo vitale: un reattore Fermi che forniva l’energia per il condizionatore, l’impianto dell’acqua, l’illuminazione ed il riscaldamento. Una volta al mese l’incaricato della Tucson Gas Electric arrivava a rifornire l’impianto, come imponeva la legge quando un’azienda elettrica aveva rifiutato di stabilire un collegamento via cavi e aveva istallato invece un generatore. Il magazzino sotto la casa, lungo cinquanta metri, conteneva anche i viveri per un mese, ed il purificatore dell’acqua era indipendente dai servizi cittadini. La civiltà poteva scomparire completamente senza che Shirley e Jack se ne accorgessero per diverse settimane.
Shirley era sul terrazzo, occupatissima con una delle sue sculture soniche, e filava una cosa vaporosa di fili complicati e lamine lucenti, il cui sommesso cinguettio da uccellino giungeva lontano, perché attraversava il deserto per arrivare fino a me. Shirley finì quello che stava facendo, poi si alzò e mi corse incontro, a braccia tese, e con i seni ondeggianti. Quando l’abbracciai, sentii la stanchezza abbandonarmi, in parte.
«Dov’è Jack?» chiesi.
«Sta scrivendo. Fra un po’ verrà fuori. Qua, lascia che ti aiuti a portare la tua roba. Hai un aspetto terribile , mio caro.»
«Me l’hanno detto anche altri.»
«Ci penseremo noi.»
Mi prese la valigia dalle mani ed entrò in casa. L’ancheggiare polposo delle sue natiche nude ebbe su di me un effetto rassicurante e ristoratore: rivolsi un gran sorriso a quelle sode guance posteriori che scomparivano alla mia vista. Ero tra amici. Ero tornato a casa. In quel momento, avrei voluto restare con loro per mesi interi.
Andai in camera mia. Shirley aveva preparato tutto: biancheria pulita, alcune bobine vicino al lettore, una lampada sul tavolo, un blocco e una stilo ed un registratore, caso mai avessi voluto buttar giù qualche idea. Poi comparve Jack, mi mise in mano una bottiglia di birra ed io l’aprii. Ci scambiammo una strizzata d’occhio, contenti di vederci.
Quella sera, Shirley combinò una cena magica, e poi, mentre il calore fuggiva dal deserto in quella sera d’inverno, ci mettemmo tranquilli in soggiorno a chiacchierare. Per fortuna, loro non dissero niente del mio lavoro. Parlammo invece degli Apocalittici, perché i Bryant erano affascinati da quel culto della fine del mondo che stava ormai infestando tanta gente.
«Li ho studiati attentamente,» disse Jack. «Tu segui questa faccenda?»
«Non proprio.»
«A quanto sembra, succede ogni mille anni. Quando il millennio sta per concludersi, si diffonde la convinzione che il mondo stia per finire. Fu una cosa piuttosto seria, verso il 999. All’inizio ci credevano soltanto i contadini, ma poi alcuni ecclesiastici molto evoluti cominciarono a farsi contagiare dalla febbre, e fu fatta. Ci furono orge di preghiera, ed anche orge di tutt’altro genere.»
«E quando arrivò l’anno mille?» domandai. «Il mondo sopravvisse, e che fine fece quel culto?»
Shirley rise. «Per loro fu una grossa delusione. Ma la gente non impara mai.»
«E gli Apocalittici, come credono che debba finire il mondo?»
«Nel fuoco,» disse Jack.
«Il flagello di Dio?»
«Prevedono una guerra. Sono convinti che i capi di Stato del mondo l’abbiano già predisposta, e che i fuochi infernali verranno scatenati il primo giorno del nuovo secolo.»
«Non ci sono più state guerre degne di questo nome in cinquanta e passa anni,» dissi io. «L’ultima volta che un’arma atomica venne usata a fini bellici fu nel 1945. Non si potrebbe presumere che abbiamo realizzato le tecniche necessarie per scansare l’apocalisse, ormai?»
«La legge dell’accumulazione della catastrofe,» disse Jack. «L’elettricità statica finisce per produrre la scarica. Pensa a tutte le piccole guerre: Corea, Vietnam, Medio Oriente, Africa Meridionale, Indonesia…»
«Mongolia e Paraguay,» aggiunse Shirley.
«Sì. In media, c’è una piccola guerra ogni sette, otto anni. Ognuna crea sequenze di reazione che contribuiscono a motivare la guerra successiva, perché tutti sono ansiosi di tradurre in pratica la lezione appresa con l’ultima guerra. Si accumula così un’intensità crescente che prima o poi esploderà nella Guerra Finale Che comincerà e finirà il primo gennaio del duemila.»
«E tu ci credi?» domandai.
«Io? Non proprio,» disse Jack. «Mi limito semplicemente ad esporre la teoria. Non vedo segni di una catastrofe imminente nel mondo, anche se devo ammettere di sapere soltanto quello che apprendo attraverso la televisione. Comunque, gli Apocalittici colpiscono l’immaginazione. Shirley, ci fai vedere le registrazioni dei disordini di Chicago, ti dispiace?»
Shirley inserì una capsula. L’intera parete di fondo della stanza si accese di colori, all’inizio del playback della trasmissione televisiva. Vidi i grattacieli di Lake Shore Drive e di Michigan Boulevard; vidi figure bizzarre che invadevano la superstrada, si riversavano sulla spiaggia, caprioleggiavano in riva al lago gelido. Quasi tutte erano dipinte a strisce sgargianti, come pagliacci in libertà. Moltissimi erano seminudi, e non era la nudità innocente e naturale di Jack e Shirley in una giornata caldissima, era qualcosa di brutto e rozzo e volutamente osceno, un’ostentazione turpe di seni penzolanti e di natiche dipinte. Era uno spettacolo ideato per sconvolgere: le figure grottesche di Hieronymus Bosch scatenate, che sciorinavano la loro nudità in faccia ad un mondo condannato. Non avevo fatto molto caso a quel movimento, prima. Rimasi sbalordito nel vedere una ragazza appena adolescente pre cipitarsi davanti alla telecamera, piroettare, alzarsi la gonna, accoccolarsi ed orinare in faccia ad un altro sgavazzatore che era crollato in uno stato stuporoso. Guardai le fornicazioni sfacciate, i grovigli grotteschi di corpi, i complessi accoppiamenti che erano, più esattamente, triplicamenti e quadruplicamenti. Una donna spaventosamente grassa avanzava sulla spiaggia, applaudendo i più giovani ed incitandoli a continuare. Una montagna di suppellettili prese fuoco. I poliziotti, sbigottiti, irroravano la folla di schiuma, ma non vi si avventuravano.
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