E l’alba era chiara, e soffiava un buon vento di coda.
Una tromba chiamò all’appello. Lythran scattò dalla cima della sua torre. Tutti i presenti sollevarono le ali mentre le feritoie ramificate subalari si spalancavano, imporporate dal sangue dei tessuti che si imbevevano di ossigeno. Le ali si riabbassarono, poi si sollevarono di nuovo; gli Ythrani si alzarono rombando dal suolo, colsero una corrente ascensionale, e si misero in formazione. Quindi volarono verso oriente al di sopra delle rupi.
Arinnian pilotò per portarsi a fianco di Eyath, la quale gli scoccò un sorriso e prese a cantare. Aveva una bellissima voce — poteva quasi definirsi un soprano — che riusciva a trasformare i toni acuti e gutturali del Planha in una melodia ben ritmata. Quello che affidava al vento era un canto tradizionale, ma era dedicato ad Arinnian perché era stato lui a tradurlo in Anglico; e lui si era sempre reso conto che i suoi equilibrismi linguistici non erano riusciti a rendere né il fascino né l’immagine della canzone.
«La luce che sgorga da un sole ancor nascosto
saluta il cacciatore nel suo volo,
lava le sue ali nel liquido mattino,
e le stelle ricaccia dietro il polo.
Nel cielo vuoto echeggia il tocco azzurro
del vento già spuntato repentino.
Ampi riposano i prati e le foreste
giù in basso, verdi come cristallo.
Ma… guarda, oh, guarda,
è spuntato un raggio rosso
tra la nebbia a brandelli.
Un cervo dalle grandi corna
baciato a tradimento.
Si piegano gli artigli.
«Rapito dal tumulto del vento sussurrante,
che geme, e piange, e turbina, ed impazza;
lungo un obliquo flusso di corrente.
Ah, ma ecco già che è l’ora della caccia!
Leggero sulle penne, la preda tremolante
dal cielo assalti, sull’ala dell’ebbrezza…
Un colpo d’ala con vento compiacente,
e il coltello rigido s’abbassa.
Il cervo s’è fermato,
è lì che prende fiato,
prima di correr via
dalla morte urlante.
Colpisce il maglio.
Si chiudono gli artigli.
«Ampio e lucente s’appressa il mezzogiorno,
che invita al sognante sonnecchiare;
ad occhi chiusi, all’ombra siedi,
sazio, ma è già ora di tornare.
Gelido come il bacio di uno spettro,
poi burrascoso il vento odi levare,
mentre la pioggia scroscia, ed il suo canto
tra le foglie sciaborda come il mare.
In mezzo agli alberi
i rami urlano
e piangono, e tra loro
sembrano lacerarsi.
È l’ora del ritorno.
Si allentano gli artigli.
«Impauriti gli arbusti fan baccano.
Sordo risuona il rombo d’ogni tuono.
Grandine e lampo s’inseguon da lontano,
cresce della tempesta forte il suono.
Cieco nel buio d’un cielo meridiano
cerchi la strada, ma l’impresa è dura,
poi trovi il sole dopo l’uragano
e il cielo sacro ti sorride ancora.
Il bagliore dorato
ti accarezza
attraverso il blu
dell’immensità
di quel cielo.
Si riposano gli artigli».
Avalon ruota in undici ore, ventidue minuti, dodici secondi, su un asse inclinato di 21° dalla normale rispetto al piano dell’orbita. Perciò Gray, circa 43° a nord, conosce sempre notti piuttosto brevi; in estate l’oscurità è poco più che un batter di palpebre. Daniel Holm si domandò se quello potesse essere uno dei motivi della sua stanchezza.
Probabilmente no. Lui era nato lì, ed i suoi antenati ci vivevano da secoli; erano arrivati con Falkayn. Se gli individui potevano cambiare i loro ritmi circadiani — come lui stesso aveva dovuto fare abbastanza spesso ai tempi in cui viaggiava nello spazio — certamente poteva farlo anche una razza. I medici dicevano che il vivere in un pianeta con gravità pari all’80% di quella terrestre richiedeva ben altro all’organismo; dovevano riadattarsi l’intero equilibrio dei fluidi e quello cinestetico. Inoltre, ciò che dovevano sopportare gli umani era trascurabile in confronto a quello dei loro colleghi coloni. Gli Ythrani avevano dovuto adattare tutto un ciclo procreativo ad un giorno, anno, peso, clima, dieta, mondo del tutto diversi. Non c’era da stupirsi che molte delle prime generazioni avessero avuto un basso indice di natalità. Nondimeno, erano sopravvissuti, ed alla fine avevano prosperato.
Perciò era sciocco supporre che un uomo potesse stancarsi per qualcosa che non fosse il lavoro eccessivo… e, sì, anche per l’età, malgrado l’anti-invecchiamento. Oppure no? Davvero? Man mano che si invecchiava, e che ci si avvicinava ai propri morti ed a tutti quelli che erano venuti prima di loro, come poteva l’essere non desiderare il ritorno ai primordi, ad una patria mai vista eppure in qualche modo ricordata?
Vecchio scemo! Falla finita! Chi ha mai detto che ad ottantaquattro anni si è vecchi? Holm afferrò un sigaro dalla tasca e ne tagliò un’estremità. Lo accese aspirandone il fumo a lungo, senza motivo.
Era di media statura, e tarchiato nella tunica color oliva e nei pantaloni rigonfi che indossava ogni membro umano dei servizi armati Ythrani. La parte mongoloide della sua origine si rivelava nella testa rotonda, il volto largo, le ossa pronunciate delle guance, le labbra troppo piene e il naso schiacciato; la parte caucasoide si esprimeva invece negli occhi grigi, nella carnagione che sarebbe stata pallida se egli non avesse trascorso il suo tempo libero all’aria aperta, a cacciare o a coltivare il giardino, e nella peluria, nera e ricciuta sul petto, ma grigia sul capo. Come molti degli uomini del pianeta, aveva eliminato la barba.
Stava trafficando con l’ultima valanga di comunicati che gli erano stati trasmessi dai suoi assistenti, quando l’intercom ronzò e disse: «Il Primo Governatore Ferune chiede un colloquio».
«Certo!». Il superiore di Holm era appena tornato da Ythri. L’uomo fece per premere il comando di collegamento bidirezionale, poi ritirò la mano e disse: «Meglio parlare faccia a faccia. Sarò lì subito».
Uscì precipitosamente dall’ufficio. Il corridoio era pieno di rumore e di animazione — personale di marina, impiegati civili dell’ammiragliato laurano — e sovraccarico degli odori di entrambe le specie, che il sistema di aerazione del palazzo non riusciva ad eliminare: vagamente acre quello umano, leggermente fumoso quello Ythrano. Gli Ythrani erano più numerosi, lì dentro, contrariamente al rapporto di popolazione su Avalon. Ma molti di loro erano arrivati da ogni parte del Dominio, e specialmente dalla madre patria, per dare man forte alla frontiera nel momento di crisi.
Holm si costrinse a rivolgere saluti a destra e a manca, mentre passava. La sua affabilità era diventata un marchio di fabbrica, del quale lui riconosceva l’utilità. All’inizio era genuina , pensò.
La guardia d’onore lo salutò e lo ammise alla presenza di Ferune. (Holm non sopportava tutta quella cerimoniosità inutile, nel suo dipartimento, ma riconosceva l’importanza che aveva per gli Ythrani). La stanza interna era tipica: spaziosa e scarsamente ammobiliata, poche austere decorazioni, un banco, un tavolo e del macchinario da ufficio adattato alle esigenze ornitoidi. Invece di una diapositiva, sulla parete c’era una vera finestra, enorme, aperta e da cui entrava una brezza profumata di giardino, con un panorama di Gray e delle acque scintillanti della baia.
Ferune vi aveva aggiunto diversi souvenir di altri pianeti ed una libreria piena di copie dei classici terrestri, che leggeva per diletto in tre lingue originali. Piuttosto piccolo, con le piume rossicce, aveva in sé un pizzico di iconoclastia. Il suo gruppo, Mistwood, era sempre stato uno dei più avanzati di Avalon, meccanizzato come una comunità umana e, di conseguenza, grande e prospero. Era piuttosto insofferente nei confronti della tradizione, la religione, e qualsiasi forma di conservatorismo. Tollerava un minimo di formalità perché non poteva farne a meno, ma non aveva mai affermato di apprezzarla.
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