Anne McCaffrey - Volo di drago

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La trilogia dei «Dragonieri di Pern», di cui «Volo di Drago» è la prima parte, è uno dei più interessanti cicli narrativi che la fantascienza ha prodotto in questi ultimi anni nel suo sforzo di rinnovamento interno, tematico e stilistico; è il tentativo ad ampio respiro di creare «ex novo» una mitologia complessa e coordinata, che non sia un semplice adattamento di mitologie «terrestri».
Esso è dovuto ad un nome nuovo, lanciato da John Campbell sulle pagine di «Analog», Anne McCaffrey, che si rivela scrittrice sensibile, originale e dalle notevoli doti letterarie. Sia i lettori che i critici statunitensi hanno testimoniato illoro apprezzamento per quest’opera, i cui diversi capitoli sono apparsi in più riprese sulle riviste di Campbell: i primi assegnando il Premio Hugo 1968 per il miglior romanzo breve alla parte iniziale del romanzo; i secondi il Premio Nebula 1969 per la stessa categoria all’ultima parte di esso. Anne McCaffrey è stata così la prima donna a vincere i due massimi premi fantascientifici americani.

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Un suono lieve, lo strisciare di uno stivale contro la pietra, la fece trasalire. Rimase immobile, in attesa che F’lar comparisse. All’improvviso si sentì intimidita. Con il viso scoperto, i capelli gettati dietro le orecchie, il corpo disegnato dalla stoffa aderente, adesso era spogliata dell’abituale anonimato e quindi si sentiva vulnerabile.

Dominò energicamente l’impulso di correre via, la scossa irrazionale della paura. Scrutando la propria immagine nello specchio, spinse indietro le spalle, rialzò la testa; e in quel movimento, i capelli crepitarono, ondeggiando. Era Lessa di Ruatha, di un nobile Sangue antico. Non aveva più bisogno di ricorrere agli artifici per difendersi: poteva affrontare a volto scoperto il mondo intero… e quel dragoniere.

Attraversò risolutamente la stanza e scostò il tendaggio che celava l’ingresso della grande caverna.

Lui era là, accanto alla testa del drago, e gli grattava le arcate sopraccigliari, con un’espressione stranamente tenera sul viso. Era uno spettacolo che contrastava in modo stridente con quanto lei aveva sentito raccontare sul conto dei dragonieri.

Aveva udito parlare, naturalmente, della strana affinità tra cavalieri e draghi: ma adesso, per la prima volta, si rendeva conto che il legame era costituito anche d’affetto. E che quell’uomo freddo e riservato era capace d’un sentimento tanto profondo. Si era comportato con lei in modo abbastanza brusco, di fronte al vecchio wher da guardia. Non c’era da stupirsi se la povera bestia) aveva pensato che intendesse farle del male. I draghi si erano mostrati più tolleranti, ricordò con una smorfia involontaria.

F’lar si girò lentamente, come se gli dispiacesse lasciare il drago. Poi la scorse e si volse di scatto, scrutandola con un’espressione intensa negli occhi. A passi rapidi e leggeri superò la distanza che li separava e la ricondusse nella stanza da letto stringendole il gomito con mano salda.

«Mnementh ha mangiato leggero, e ha bisogno di silenzio per riposare,» le disse a bassa voce, come se quella fosse la cosa più importante. Tirò con cura il pesante tendaggio dell’ingresso.

Poi scostò da sé Lessa, facendola girare da questa parte e dall’altra, osservandola attento: un’espressione curiosa e un po’ sorpresa gli aleggiava sul volto.

«Ti sei lavata… Graziosa, sì, quasi graziosa.» Nella voce di lui c’era una tale condiscendenza divertita che la giovane donna si divincolò e si scostò, irritata. F’lar ebbe una risata sommessa, beffarda. «Chi poteva immaginare, del resto, quello che c’era sotto la sporcizia di… dieci interi Giri, no? Sì: senza dubbio sei abbastanza graziosa per placare F’nor.»

Esasperata da quell’atteggiamento, Lessa domandò, in tono gelido: «E F’nor deve essere placato ad ogni costo?»

F’lar continuò a squadrarla sogghignando fino a quando lei dovette stringere i pugni contro i fianchi per non cedere alla tentazione di percuoterlo.

Finalmente, lui disse: «Non importa. Dobbiamo mangiare, e ho bisogno di te.» Si voltò udendo l’esclamazione sorpresa di Lessa; sorrise maliziosamente e indicò la chiazza di sangue secco sulla manica sinistra. «Il minimo che puoi fare è medicare le ferite che ho ricevuto combattendo onorevolmente per te.»

Scostò un tratto degli arazzi che coprivano la parete interna. «Pranzo per due!» gridò nel varco buio che si apriva nella pietra.

Lessa sentì la voce riecheggiare lontana, in basso, alla base di quello che doveva essere un pozzo molto profondo.

«Nemorth è ormai quasi rigida,» disse F’lar, mentre prendeva alcuni oggetti da un altro ripiano nascosto dagli arazzi. «Comunque, la Schiusa comincerà molto presto.»

Lessa avvertì una stretta gelida allo stomaco, solo al sentir parlare della Schiusa. Aveva sentito raccontare cose agghiaccianti, a proposito di quel particolare momento dell’esistenza dei draghi. Prese, stordita, gli oggetti che F’lar le porgeva.

«Come? Hai paura?» la punzecchiò lui, mentre si toglieva la camicia lacera e insanguinata.

Lessa scrollò la testa e concentrò l’attenzione sul dorso ampio e muscoloso dell’uomo. La pelle era segnata da striature irregolari del sangue che sgorgava dalla spalla, adesso che, togliendo la camicia, aveva staccato la crosta appena formata.

«Mi serve dell’acqua,» disse lei. Vide che tra gli oggetti consegnatile c’era anche un recipiente piatto. Andò a prendere l’acqua alla vasca, chiedendosi cosa mai l’avesse indotta ad avventurarsi tanto lontano da Ruatha. Nel momento in cui quell’idea le era stata proposta e confermata insidiosamente dal dragoniere, lei si era sentita capace di tutto, poiché era riuscita a ottenere la morte di Fax. Ma adesso, riusciva appena ad evitare che l’acqua traboccasse dal recipiente stretto tra le sue mani tremanti.

Si costrinse a pensare soltanto alla ferita. Era un brutto squarcio, profondo dove era penetrata la punta, via via sempre meno profondo verso il basso. La pelle di F’lar era liscia, sotto le sue dita, mentre puliva la ferita. Non poté fare a meno di notare l’odore mascolino di lui, un miscuglio non sgradevole di sudore, di cuoio, e dell’insolito sentore di muschio che doveva derivare dalla continua vicinanza dei draghi.

Benché gli avesse certamente fatto male nel togliere il sangue raggrumato, F’lar non diede segno di soffrire, come se non prestasse attenzione a quell’operazione. Lessa s’infuriò ancora di più quando si avvide di non poter cedere alla tentazione di trattarlo bruscamente, per ricambiarlo della scarsa considerazione che lui aveva mostrato nei suoi confronti.

Strinse i denti, esasperata, mentre spargeva in abbondanza l’unguento medicamentoso. Fece un piccolo tampone con le bende, e fissò la medicazione con una fasciatura. Quando ebbe finito si tirò indietro; F’lar provò a flettere il braccio fasciato, e quel movimento fece contrarre i muscoli del fianco e del dorso.

Poi F’lar si girò verso Lessa: il suo sguardo era buio e pensieroso.

«Ben fatto, mia signora. Ti ringrazio.» Il suo sorriso era ironico.

Lessa arretrò mentre lui si alzava: ma F’lar si diresse semplicemente al cassettone, per prendere una camicia bianca pulita.

In quell’istante risuonò un rombo sommesso, che subito si fece più forte.

Erano i draghi che ruggivano? si chiese Lessa, cercando di vincere la ridicola paura che cresceva dentro di lei. Era cominciata la Schiusa? Lì non c’era il covile di un wher da guardia, in cui trovare rifugio.

Come se intuisse la sua confusione, il dragoniere rise gaiamente e, guardandola negli occhi, scostò la tappezzeria, proprio nell’istante in cui un meccanismo rumoroso, all’interno del pozzo, portava in piena vista il vassoio del pranzo.

Piena di vergogna per la propria paura e infuriata con F’lar perché ne era stato testimone, Lessa sedette sulla panca coperta di pelli, augurandogli una serie di ferite gravi e dolorose per potergliele curare con mani prive d’ogni riguardo. Non si sarebbe lasciata sfuggire le future occasioni, si disse.

F’lar posò sul basso tavolo davanti a lei il vassoio, ammucchiando per terra alcune pelli per sedervisi. C’era della carne, del pane, una caraffa di klah , un appetitoso formaggio giallo, e persino alcuni frutti invernali. F’lar non accennò a mangiare, e neppure Lessa, benché il pensiero di un frutto maturo e non marcio bastasse a farle venire l’acquolina in bocca. L’uomo levò lo sguardo verso di lei, aggrottando la fronte.

«Anche nel Weyr, è la dama che spezza il pane per prima,» disse, rivolgendole un cortese cenno del capo.

Lessa arrossì. Non era abituata alle cortesie, e soprattutto non era abituata a mangiare per prima. Staccò un pezzetto di pane. Non ricordava di avere mai assaggiato una cosa simile. Innanzi tutto, era appena sfornato. La farina era stata passata ad un setaccio fine, e non c’era traccia di crusca o di sabbia. Prese il pezzo di formaggio che F’lar le offriva; anche quello era deliziosamente saporito. Imbaldanzita da quella conferma della sua nuova posizione sociale, Lessa tese la mano verso il frutto più carnoso.

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