Demostene,
Lettera ai Framlings
Rooter era il più ostico e allo stesso tempo il più servizievole di tutti i pequeninos. Ogni volta che Pipo faceva loro visita nella radura lui era lì, pronto a rispondere a quegli interrogativi che l’uomo, per legge, non avrebbe potuto venire a sottoporgli. Pipo dipendeva da lui — troppo, probabilmente — ma per contro Rooter, mentre da un lato giocava o faceva il buffone come s’addiceva alla sua giovane età, dall’altro lo osservava, lo metteva alla prova, lo studiava. Pipo doveva costantemente guardarsi dalle piccole trappole in cui Rooter cercava di farlo cadere.
Quel giorno, fino al momento del suo arrivo, Rooter aveva folleggiato su e giù per gli alberi, aggrappandosi alla corteccia soltanto con i cuscinetti cornei sporgenti all’interno delle coscie e delle caviglie. In mano aveva due bastoncelli — Bastoni-Padre, li chiamavano — con cui, nell’arrampicarsi, percuoteva il tronco secondo uno schema aritmico ma singolarmente incisivo.
Il chiasso finì per far uscire Mandachuva dalla casa di tronchi. Si volse a Rooter e gli gridò qualcosa nella Lingua dei Maschi, quindi in portoghese: — P’ra baixo, bicho! — Alcuni maialini che erano nelle vicinanze espressero la loro approvazione per quel gioco di parole in lingua umana, sfregando rapidamente le cosce l’una contro l’altra. Ne derivò un sibilante fruscio, e deliziato dal loro applauso Mandachuva reagì con un allegro saltello.
Nel frattempo Rooter era indietreggiato lungo un tronco secco finché parve sul punto di precipitare. Giunto in cima, distese le braccia di scatto, fece una capriola all’indietro e atterrò di precisione sulle gambe, rimbalzando con eleganza per ammortizzare l’impatto.
— Così, ora sei diventato un acrobata — disse Pipo.
Rooter s’incamminò verso di lui esibendo la baldanzosa andatura con cui si divertiva a imitare gli umani. Una caricatura efficace quanto ridicola, dato che il suo piatto grugno rivolto all’insù appariva decisamente porcino. Non c’era da meravigliarsi che i primi visitatori giunti su quel mondo avessero cominciato a chiamarli «maiali». 1 loro rapporti iniziali sulla fauna erano stati spediti in patria nell’86, e al tempo della fondazione di Colonia Lusitania, nel 1925, quel nome era ormai diventato indelebile. Gli xenologi sparsi sui Cento Mondi si riferivano ad essi come agli «Aborigeni Lusitani», il che faceva ridere Pipo sotto i baffi: per una mera questione di dignità professionale i suoi colleghi si riferivano ufficialmente a loro con quel nome, ma sapeva che anch’essi, fra sé e sé, continuavano a chiamarli «maiali». In quanto a lui, li aveva sempre chiamati pequeninos, un termine su cui essi non obiettavano affatto visto che avevano preso a riferirsi a se stessi come «I Piccoli». Tuttavia, dignitoso o meno che fosse, il paragone non si poteva negare. In quel momento Rooter sembrava un tronco roseo in piedi sulle zampe posteriori.
— Acrobata — disse Rooter, ruminando quel nuovo termine. — Per ciò che ho fatto? E voi avete una parola per questa attività? Allora fra voi c’è gente che fa la stessa cosa per lavoro ?
Pipo cercò di congelarsi il sorriso cordiale sulla faccia, ma dentro di sé non represse un sospiro. La legge proibiva severamente di dare informazioni sulla società umana ai maiali, allo scopo di non contaminare la loro cultura. Rooter però giocava una partita costantemente tesa a spremere ogni dato e implicazione da tutto ciò che gli usciva di bocca. Stavolta, comunque, se gli era sfuggito un accenno che apriva inutili finestre sulla cultura umana, Pipo non poteva biasimare altri che se stesso. Di tanto in tanto gli accadeva di trovarsi così a suo agio con i pequeninos da parlare troppo a lingua sciolta. Sempre sul filo del rasoio , pensò. Non sono un granché in questo gioco basato sull’arraffare informazioni mentre si cerca di non dare niente in cambio. Libo invece, questo mio figlio dalla bocca cucita, sa già essere più discreto e calcolatore di me. E pensare che l’ho preso come apprendista da… quanto è trascorso dal suo tredicesimo compleanno? Appena quattro mesi.
— Non mi dispiacerebbe avere sulle gambe dei cuscinetti come i vostri — disse. — La corteccia di un albero di quel tipo potrebbe riempirmi la pelle di vesciche e di graffi.
— Questo causerebbe grande rimorso in tutti noi. — Rooter s’era irrigidito nella posizione d’attesa che Pipo pensava d’aver identificato come il loro modo d’esprimere una certa ansia, o forse un avvertimento non verbale per invitare altri pequeninos alla cautela. Avrebbe anche potuto essere un sintomo di paura intensa, senonché Pipo, per quel che ne sapeva, non aveva mai visto un pequenino in preda a un vero spavento.
In ogni caso, si premurò subito di calmarlo. — Non preoccuparti. Sono troppo anziano e fragile per arrampicarmi sugli alberi. È una cosa che lascio a voi giovani.
La precisazione funzionò. Il corpo di Rooter tornò subito a muoversi, rilassato. — A me piace arrampicarmi in cima agli alberi. Così posso vedere tutto. — Si gettò a sedere di fronte a Pipo e avvicinò la faccia, inclinandosi in avanti. — Porterai la bestia che corre sull’erba senza toccare terra? Gli altri non mi credono quando dico che ho visto una cosa di questo genere.
Un’altra trappola. Te la senti tu, Pipo, uno xenologo, di umiliare con la tua scienza l’individuo di una comunità che stai studiando? O baderai a rispettare la legge con cui la Federazione Starways ha regolamentato questo contatto? I precedenti erano ben scarsi. L’unico contatto che la razza umana avesse avuto con un’intelligenza extraterrestre era stato quello con gli Scorpioni, tremila anni prima, e s’era concluso con lo sterminio completo di quella specie. Stavolta la Federazione Starways voleva essere ben certa che, in caso di errori umani, tali errori avrebbero condotto semmai a rischi in direzione opposta. Informazioni ridotte al minimo, e contatti ridotti al minimo.
Rooter parve capire quali esitazioni vi fossero dietro il silenzio di Pipo.
— Tu non ci dici mai niente — osservò. — Voi ci guardate, ci studiate, ma non ci lasciate mai oltrepassare il recinto ed entrare nel vostro villaggio per guardare voi , per studiare voi.
Pipo intuì la necessità di una risposta onesta, ma la cautela era molto più importante dell’onestà. — Se è vero che voi apprendete così poco mentre noi impariamo tanto, perché mai voi sapete parlare sia il portoghese che lo stark, e io invece stento ancora a capire la vostra lingua?
— Noi siamo più intelligenti. — Detto questo, Rooter si appoggiò sulle natiche e girò su se stesso volgendo le spalle a Pipo. — Torna dietro il tuo recinto — disse.
L’uomo si alzò subito. Non molto distante da lì, chino accanto a tre pequeninos, Libo stava cercando di annotarsi la tecnica con cui intrecciavano fibre secche di nerdona per costruire tetti di stuoie. Appena vide il padre muoversi, il ragazzo s’affrettò a raggiungerlo. Pipo si limitò a farsi seguire da lui con un cenno del capo. Da quando avevano compreso quale padronanza i pequeninos avessero delle lingue umane, evitavano di parlare di loro finché non erano di nuovo fuori dalla boscaglia.
Per rientrare occorse loro mezz’ora di cammino, e stava piovendo forte quando oltrepassarono il cancello e s’avviarono lungo il costone della collina verso la Stazione Zenador. Zenador? pensò Pipo, quando lo sguardo gli cadde sulla porta. Il battente recava una targa con la parola XENOLOGIA scritta in stark. E sui Cento Mondi io sono, o si suppone che sia, uno xenologo. Ma il titolo portoghese Zenador era tanto più facile da pronunciare che raramente su Lusitania la gente diceva Xenologo , anche quando parlava in stark. È così che le lingue cambiano , si disse Pipo. Se non fosse per l’ansible, che consente comunicazioni istantanee fra i Cento Mondi, non ci sarebbe possibile mantenere una lingua comune. I viaggi interstellari sono ancora troppo rari, e lenti. Lo stark si frammenterebbe in diecimila dialetti entro un secolo. Sarebbe interessante estrapolare con il computer una proiezione dei cambiamenti linguistici possibili su Lusitania, nel caso che lo stark degenerasse assorbendo il portoghese…
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